- La ribellione della Wagner mostra un potere russo debole e frammentato: davanti a Bakhmut i miliziani hanno pagato un pesante tributo di sangue alla scellerata avventura voluta da Vladimir Putin e ora vogliono essere ricompensati
- Il Cremlino non controlla più l’immenso paese: la guerra ha sconvolto istituzioni che sembravano granitiche ed ora tutto diventa possibile
- Se il paese entra nel caos chi potrà controllare le armi nucleari? Forse è meglio un Putin che dieci sconosciuti armati della bomba
Mosca come Khartoum? Ovvero: se utilizzi miliziani alla fine ti si rivoltano contro. I fatti di Rostov e la ribellione della Wagner sono un’ammissione di debolezza: davanti a Bakhmut i miliziani hanno pagato un pesante tributo di sangue alla scellerata avventura voluta da Vladimir Putin e ora vogliono essere ricompensati. Probabilmente Evgeny Prigozhin, il fondatore della tenebrosa milizia, sperava nel posto da ministro della difesa avvalendosi di alcuni sostegni interni alla “verticale del potere”, la governance del sistema russo. Altrimenti non si spiega come abbia potuto avvicinarsi coi blindati a Mosca senza essere attaccato. Tanta audacia non è bastata per ottenere soddisfazione: ha dovuto trattare e poi retrocedere. Un’apparente mediazione bielorussa lo avrebbe convinto a ritirarsi e probabilmente a lasciare la Russia. Cosa accadrà ai suoi uomini ancora non è noto.
Un colpo pesante
Tuttavia il colpo per il Cremlino è pesante: la Russia si mostra scossa nel profondo da lotte intestine che non sono ancora terminate e fanno prevedere sorprese. Putin non ha più il totale controllo, come sembrò quel giorno in cui prese a male parole i componenti del consiglio per la sicurezza nazionale. La guerra ha sconvolto istituzioni che sembravano granitiche ed ora tutto diventa possibile. Non sappiamo bene quale sia stato l’impatto del conflitto e della sua (disastrosa) conduzione sulle gerarchie civili e militari ma è lecito immaginare che qualcosa si sia rotto fin dall’inizio. La scelta di utilizzare i miliziani della Wagner (originariamente selezionati per occuparsi d’Africa e poco più) o i ceceni era già di per sé un segno di inadeguatezza delle forze regolari russe. Forse si è trattato anche di una spia sullo stato d’animo della pubblica opinione, non così propensa a morire per il Donbass.
Il riconoscimento dell’impotenza
Sta venendo giù tutto il castello di carte della propaganda di questi mesi, non tanto per noi quanto per i russi stessi: sarà più difficile continuare a dare la colpa all’occidente nascondendo le carenze interne. Lo stesso discorso di Putin sul tradimento rappresenta il riconoscimento di un’impotenza. La situazione si è fatta pericolosa: al superficiale entusiasmo che il caos russo sta suscitando in certi circoli occidentali e in alcuni paesi dell’est europeo, corrisponde il timore dell’amministrazione americana che Mosca sia fuori controllo. Una girandola di nervose consultazioni tra i maggiori leader occidentali sta tentando di anticipare le possibili evoluzioni.
La posizione di chi voleva “spezzare” la Russia, facendole pagare l’aggressione con una sonora punizione, mostra ora tutta la sua pericolosità: a Washington si dice apertamente che “è meglio un Putin che dieci sconosciuti in possesso di armi nucleari”. Se in Russia davvero si aprisse una fase di frammentazione e di pericolosa lotta intestina, sarebbero guai seri per tutti. Meglio tornare rapidamente al realismo della politica.
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