Intorno all’inflazione e ai crac bancari – Silicon Valley Bank e non solo – si combatte «una battaglia tra il fuoco e il ghiaccio», ha detto il co-presidente di Morgan Stanley Ted Pick.

Ma è più corretto dire che la battaglia è per decidere chi comanda tra i mercati finanziari e le banche centrali e tra le banche centrali e i governi.

E’ anche una battaglia per stabilire come funziona – o come dovrebbe funzionare – il capitalismo, se sulla base di patti chiari e rispettati o di un costante “gioco del pollo”: perde chi cede per primo, ma se nessuno cede finiscono male tutti.

Il fuoco dell’inflazione

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La battaglia tra “il fuoco e il ghiaccio” è quella più evidente: il fuoco è quello dell’inflazione, che negli Stati Uniti è stata al 6 per cento su base annua a febbraio, un po’ meglio del 6,4 per cento di gennaio ma comunque alta.

Quella al netto delle componenti volatili di cibo ed energia continua a salire. A febbraio l’economia americana ha anche continuato ad aggiungere numeri significativi di lavoratori, 311mila.

La Federal Reserve di Jerome Powell ha promesso ghiaccio sul fuoco di un’economia che è stata surriscaldata dalle politiche anti-Covid – gli stimoli delle amministrazioni Trump e Biden alle famiglie – e dagli aggiustamenti nel mondo post-pandemia (negli Stati Uniti la crisi energetica si è sentita molto meno per l’ormai quasi-indipendenza dall’importazione di gas e petrolio).

Il problema è che quel ghiaccio sta contribuendo a causare le crisi bancarie, perché l’aumento dei tassi di interesse può avere conseguenze destabilizzanti.

Frederic Boissay e Cristina Leonte per la Banca dei regolamenti internazionali (Bis) hanno studiato il legame tra cicli di politica monetaria restrittiva (aumento dei tassi, riduzione della liquidità) e crisi bancarie, dagli anni Settanta al 2017.

Il risultato della loro analisi è che alcuni fattori rendono molto più probabile che ci sia una crisi bancaria entro i tre anni dall’inizio della stretta: un alto livello di debito privato in proporzione al Pil e un rapido aumento dell’inflazione prima della svolta nella politica monetaria.

Powell e la Fed devono decidere se continuare con il ciclo di politiche restrittive anche se questo ora sembra mettere a rischio la stabilità finanziaria, oppure se rallentare anche se il segnale che potrebbe arrivare ai mercati è quello di una “financial dominance”, cioè di una politica monetaria orientata in base alle esigenze del settore finanziario invece che della collettività (il mandato della Fed è tenere i prezzi stabili e la disoccupazione bassa).

Senza credibilità

Per orientare i mercati, l’arma più potente delle banche centrali è la credibilità. Poiché le risorse di cui dispone un banchiere centrale sono virtualmente infinite, se il suo impegno è netto e indiscutibile i mercati non possono che adeguarsi, basta ricordare la promessa di Mario Draghi, allora a capo della Bce, di fare “tutto il necessario” per salvare l’euro.

Un impegno che, nell’immediato, non ha comportato alcun esborso ma che ha fermato il panico sulla tenuta della moneta unica.

Il problema è che la Fed, come la Bce, ha perso molta della sua credibilità.

Dopo molti errori sull’inflazione, ora naviga di fatto a vista, i mercati non sono più in grado di predire con sicurezza le sue mosse e seguono un criterio spannometrico: ogni dato che indica un rallentamento dell’economia porta ad aumenti dei prezzi di Borsa e dei bond, ogni segnale di un’inflazione persistente genera l’attesa di una stretta più forte o più duratura della politica monetaria e quindi innesca cali.

A livello globale, azioni e bond durante il 2022 hanno perso tra il 16 e il 20 per cento. Un investitore medio con il 60 per cento dei risparmi in azioni e il 40 in obbligazioni avrebbe perso il 18 per cento. Una differenza significativa rispetto agli ultimi 30 anni quando un analogo portfolio di investimento ha reso in media l’8,7 per cento l’anno.

L’azzardo morale 

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Seconda perdita di credibilità: l’azzardo morale paga ancora, anche quindici anni dopo la crisi finanziaria del 2007-2008. I manager della Silicon Valley bank hanno trasformato l’investimento più sicuro – obbligazioni garantire dallo stato a lungo termine – in uno speculativo, perché non si sono protetti contro il rialzo dei tassi (che poi è arrivato).

I depositanti della Silicon Valley Banck– aziende tech della California finanziate da venture capital – hanno tenuto sui conti milioni e milioni di dollari pur sapendo che i depositi assicurati sono fino a 250.000 dollari.

Il management si è preso rischi eccessivi e così i clienti, che hanno finito per usare la banca e la sua strategia irresponsabile come una scorciatoia rispetto ad altre gestioni finanziarie più complesse e costose (ma anche più prudenti).

Azionisti e obbligazionisti della banca perderanno tutto, ma il salvataggio c’è comunque: i depositi delle aziende – molto ben agganciate nei media e in politica – vengono garantiti dalle istituzioni pubbliche locali e federali, la Fed ha creato uno strumento di emergenza per offrire liquidità per un anno dando in garanzia, a valore nominale (e non di mercato), le obbligazioni a lungo termine il cui valore si riduce con l’aumento dei tassi (tassi più alti oggi implicano che cedole e capitali futuri vengono attualizzati con un tasso di sconto più elevato, cioè “valgono” meno).

Se un simile paracadute fosse stato disponibile una settimana fa, Silicon Valley Bank non sarebbe fallita, visto che il suo problema era avere liquidità in cambio dei troppi titoli a lungo termine.

Imparare dagli errori

Cosa devono fare ora le banche centrali per mantenere un minimo di credibilità necessaria a indirizzare l’economia? La risposta non è facile.

Se guardano i dati dell’inflazione, tanto la Fed quanto la Bce devono continuare con la politica monetaria restrittiva, anche se questo comporta nuovi potenziali shock nel sistema (anche se situazioni come quella di Svb dovrebbero essere più uniche che rare).

Ma non possono ignorare la crisi finanziaria strisciante in atto, come ha spiegato a Repubblica l’ex membro del board Bce Lorenzo Bini Smaghi.

Per due ragioni: perché si potrebbero replicare gli errori del 2011 (aumenti dei tassi della Bce contro l’inflazione mentre stava scoppiando la crisi del debito pubblico troppo costoso) e perché le crisi bancarie e il panico hanno un effetto analogo a quello della stretta monetaria, visto che spingono gli investitori a liberarsi di titoli rischiosi e ad aumentare la domanda di obbligazioni pubbliche a basso rischio, il cui rendimento quindi sale.

La stretta preventivata, quindi, rischia di avere effetti superiori a quelli attesi in questo nuovo contesto.

D’altra parte, il fragile equilibrio su cui si reggono i mercati finanziari si regge sulla convinzione che le banche centrali faranno tutto il necessario per riportare l’inflazione sotto controllo nel medio periodo. Anche se nel breve tutte le previsioni di Fed e Bce si sono rivelate sballate, gli indicatori sul futuro più remoto (come i contratti forward a cinque anni) indicano che gli investitori si aspettano un’inflazione intorno al 2 per cento o poco sopra (2,1 nell’eurozona).

Se gli shock finanziari rallentano la politica monetaria restrittiva che i mercati hanno incorporato in queste aspettative, le attese sull’inflazione varieranno?

Non ci sono punti fermi in questo contesto, il futuro non è mai stato così imprevedibile.

L’economista dell’Università di Chicago Raghuram Rajan ha osservato che i troppi anni di tassi troppo bassi – per superare la crisi finanziaria del 2008, per evitare la deflazione, per affrontare il Covid.. – hanno contribuito a creare squilibri nel sistema finanziario che oggi rendono difficile per i banchieri centrali gestire l’inflazione senza creare più danni di quelli che prevengono.

Hanno agito tutti – negli Stati Uniti e nell’eurozona – troppo tardi. Perché, dice una vecchia battuta da economisti, “quando guardi l’inflazione negli occhi è troppo tardi”.

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