- L’Ungheria di Orban è una repubblica parlamentare e non presidenziale. Agitare, quindi, lo “spettro Orban” per smontare le proposte di riforma in senso presidenzialista del centrodestra è sbagliato dal punto di vista giuridico e rafforza le tesi di quanti vogliono una repubblica presidenziale.
- In una repubblica presidenziale non c’è un leader sopra gli altri, ma un sistema di pesi e contrappesi che impedisce a chi governa di farlo senza il parlamento tanto che è quest’ultimo, in tali regimi politici, ad assumere un ruolo di primo piano.
- C’è poi la proposta del “sindaco d’Italia” avanzata da Renzi: l’idea è quella di «eleggere direttamente il presidente del Consiglio come avviene con gli amministratori territoriali». La proposta è molto più dirompente di quella del centrodestra perché prevederebbe l’elezione contestuale di presidente e parlamento, senza alcun tipo di bilanciamento.
Partiamo da un dato di fatto: l’Ungheria di Viktor Orban è una repubblica parlamentare e non presidenziale. Una forma di governo parlamentare è un sistema politico in cui il governo deve avere la fiducia del parlamento e non appena tale fiducia viene meno cessano le sue funzioni. In Ungheria accade questo, esattamente come in Italia. E sempre in Ungheria esiste un Presidente della Repubblica – diverso dal capo del governo – eletto a maggioranza dei 2/3 dal parlamento, con una funzione di garanzia del sistema istituzionale e di unità nazionale – proprio come in Italia.
Agitare, quindi, lo “spettro Orban” per smontare le proposte di riforma in senso presidenzialista avanzate dal centro destra è sbagliato dal punto di vista giuridico e rafforza le tesi di quanti vogliono una repubblica presidenziale. Perché, chiariamoci, in una repubblica presidenziale non c’è un leader sopra gli altri, un potere che sovrasta gli altri, bensì c’è un sistema di pesi e contrappesi che impedisce a chi governa di farlo senza il Parlamento tanto che è quest’ultimo, in tali regimi politici, ad assumere un ruolo di primo piano.
Il modello Usa
Gli Stati Uniti d’America sono l’archetipo dei modelli presidenziali. Questo sistema si basa su due poteri (il presidente federale a capo dell’esecutivo e il potere legislativo costituito dal Congresso) che traggono entrambi legittimazione dal corpo elettorale ma in due momenti distinti: l’elezione del presidente e quella dei parlamentari avvengono in anni diversi così da agevolare, quasi naturalmente, la formazione di una serie di bilanciamenti tali per cui nessuno dei due poteri può sovrastare l’altro.
Negli Stati Uniti, il presidente ha poteri molto limitati nella politica nazionale e per attuare il suo programma deve continuamente trattare con deputati e senatori: l’arte del compromesso è la cifra che caratterizza il presidenzialismo negli ordinamenti democratici.
Quanti ricordano la presidenza Obama? Pur godendo di una maggioranza coesa nel Congresso, Obama ha dovuto inventarsi di tutto per far approvare la legge di riforma sanitaria, rinunciando a parti qualificanti del provvedimento in cambio di uno o due voti in Senato (tanto da essere stato descritto come un “presidente lobbista”).
Il successore Donald Trump avrebbe voluto abrogare l’Obama Care ma non ci è riuscito, pur essendo maggioritari i deputati e i senatori repubblicani, perché non ha saputo trovare un compromesso. Perfino Ronald Regan, che poteva contare su una maggioranza repubblicana al Congresso molto vasta nel corso dei suoi mandati, non poté nominare giudice della Corte suprema il suo amico Robert Borke, trovandosi il veto imposto dal Senato.
C’è un film del 2012, diretto da Steven Spielberg, che racconta bene questa situazione: il presidente Abraham Lincoln, repubblicano, vuole emendare la Costituzione e abolire la schiavitù; può contare su un Congresso a maggioranza repubblicana, a lui devoto, eppure è costretto a mediare con i democratici e a trovare i più strani compromessi (perfino assoldando una società di lobbying) per far passare la sua proposta.
Ora, c’è da chiedersi se il centro destra quando propone di trasformare la repubblica italiana da parlamentare a presidenziale abbia in mente il modello statunitense oppure il così detto iper presidenzialismo latinoamericano (quello argentino o brasiliano, per esempio) dove sono assenti quei meccanismi di checks and balances tipici degli Stati Uniti.
Il “sindaco d’Italia” è pericoloso
Al modello iper presidenzialista sembra ispirarsi, invece, la proposta di Matteo Renzi del “sindaco d’Italia”. La sua idea è quella di «eleggere direttamente il presidente del Consiglio come avviene con gli amministratori territoriali»: alle elezioni, i cittadini dovrebbero scegliere un leader politico candidato capo del governo e chi vince prende la maggioranza dei seggi in parlamento e governa per cinque anni.
Espressa in questi termini, la proposta è molto più dirompente di quella del centrodestra perché prevederebbe l’elezione contestuale di presidente e parlamento, limitando nettamente i pesi e contrappesi propri di un regime presidenziale. Non sappiamo se il leader di Italia Viva abbia in mente la Francia (col suo semipresidenzialismo) o l’Argentina quando formula questa proposta.
Ciò che è chiaro, tuttavia, ed è condiviso tra tutte le forze politiche, è l’esigenza di riformare l’attuale sistema politico, dando una nuova funzione al parlamento (che negli ultimi due anni è sembrato un convitato di pietra della democrazia) e un ruolo più incisivo al governo.
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