- L’accordo raggiunto dalle parti sociali è una buona notizia, perché lo smart working non è la modalità emergenziale del lavoro, ma la sua evoluzione strutturale. Per questo è da regolare, così da valorizzarne gli aspetti positivi e superare quelli negativi.
- L’accordo definisce il lavoro da remoto come lavoro per obiettivi, senza il vincolo di orari fissi. Sancisce il diritto alla disconnessione e chiarisce che il costo degli strumenti per l’esercizio della prestazione lavorativa è a carico delle imprese.
- Non c’è il legame tra smart working e donne, troppo spesso utilizzato. Come se il lavoro da remoto fosse uno strumento loro dedicato. Come se la conciliazione con la cura fosse un problema delle donne.
L’accordo raggiunto dalle parti sociali con la regia del Ministero del lavoro, è una buona notizia per almeno cinque ragioni.
In primis è molto importante la consapevolezza che ispira il protocollo: lo smart working non è la modalità emergenziale del lavoro, ma la sua evoluzione strutturale trainata dalla rivoluzione digitale post Covid. La nuova normalità. Per questo è da regolare, così da valorizzarne aspetti positivi e superare quelli negativi.
In seconda battuta, il cambiamento del lavoro determinato dalla rivoluzione digitale trascina con sé il cambiamento dell’organizzazione sociale, perché cambiano le coordinate di tempo e luogo del lavoro. E quindi di per sé si modifica la scansione della vita quotidiana.
È molto importante in questo senso che l’accordo definisca il lavoro da remoto come lavoro per obiettivi, reso in autonomia, senza il vincolo di orari fissi. Ma proprio per questo esiste la necessità di definizione certa del diritto alla disconnessione per gli smart workers. Come appunto fa il protocollo.
Terzo punto: nell’analisi sul gradimento da parte delle persone dello smart working, se l’aspetto più positivo rilevato è legato alla gestione del tempo –soprattutto all’eliminazione di quello utilizzato per raggiungere il posto di lavoro – quello più negativo è legato all’assenza di socialità.
Ma smart working non fa rima con home working. Non è telelavoro. Si può fare ovunque, in coworking o anche fuori dalla propria città. E perciò molto importante che l’accordo lo chiarisca, e chiarisca che i costi per gli strumenti necessari all’esercizio della prestazione lavorativa da remoto sono a carico delle imprese.
Quarto punto: è altrettanto utile la struttura dell’accordo, costruito come Linee guida per la contrattazione collettiva, che d’altra parte ha nella legge numero 81 del 2017 l’adeguata legislazione di sostegno. Non c’era infatti bisogno di nuove norme, ma di linee guida sì.
Infine, la struttura urbanistica delle città è stata storicamente determinata dai processi produttivi. A una struttura produttiva fordista hanno corrisposto città rigidamente divise in periferie dormitorio e centri congestionati. La rivoluzione digitale, al contrario, può consentire città policentriche e sostenibili, in cui vivere meglio.
Ma naturalmente cambiamenti così importanti, di sistema, che coinvolgono la vita delle persone, delle imprese e l’organizzazione sociale, vanno accompagnati dalle amministrazioni. Per indirizzarli in modo coerente alla visione di città contemporanea sostenibile, quella dei 15 minuti, con scelte conseguenti e condivise. Il protocollo aiuta ad andare nella direzione giusta.
Cosa non c’è nell’accordo
È anche importante quello che non c’è nelle linee guida.
Non c’è il legame tra smart working e donne, troppo spesso utilizzato, come se il lavoro da remoto fosse uno strumento loro dedicato e la conciliazione con la cura fosse un problema delle donne.
Magari si potrebbero anche immaginare incentivi per sostenere la condivisione del lavoro di cura tra donne e uomini, sia attraverso il part-time di coppia – come in Germania – sia attraverso lo smart working di coppia, come nella proposta di legge Nannicini-Fedeli.
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