- Per andare sul pratico, il governo Meloni, che tanto protesta contro la Bce per gli aumenti dei tassi, anziché irritare i sindacati, azioni la sola leva di politica economica che ha in mano.
- Rafforzi, invece di fiaccarla, l’autorità Antitrust, e riparta dalla “Legge concorrenza” del governo Draghi, annacquata dal corporativismo (un lascito fascista?) di Lega e Forza Italia. La rimpingui invece, consentendo alle virtù del mercato, tanto evocate, di dispiegare i loro benefici. Non si parla solo di balneari e tassisti, che parrebbero i poteri forti rimasti in Italia, ma anche di libere professioni e commercio.
- Altro che “Non disturbare chi vuole fare”, ce n’è di cose da fare e c’entrano anche le tasse.
Una ricerca di Oscar Arcé, Elke Hahn e Gerrit Koester, tre studiosi della Banca Centrale Europea (Bce), mostra che l’alta inflazione del 2022 è dovuta per due terzi all’aumento dei profitti lordi delle imprese, per un terzo a quello del costo del lavoro. Devo a Lorenzo Borga (Il Foglio, 1 maggio) la lettura della ricerca, importante per il dibattito sui problemi reali, ma altrimenti riservata a pochi intimi.
Le banche centrali hanno da sempre l’occhio fisso sugli aumenti del costo del lavoro, non solo per il conservatorismo di cui sono imbevute, specie la Bce, nata dalla Bundesbank come Minerva dalla testa di Giove. Incide anche la convinzione che la forza negoziale dei sindacati inneschi il circolo vizioso fra inflazione e salari che in Italia portò ad abolire la “scala mobile” nel 1985. Questo fu insieme causa ed effetto dell’indebolimento del sindacato come rappresentante contrattuale di chi lavora. Le banche centrali, poi, sono legate all’idea che spetti alla concorrenza ridurre i profitti. Moderarli non riguarda le istituzioni pubbliche, cui spetta invece sorvegliare il costo del lavoro che, a differenza dei profitti, indietro non torna. Tralasciamo qui che pare erroneo comparare un margine sui ricavi al costo del lavoro, il ricavo di chi lavora.
La vecchia impostazione, ancora viva nelle banche centrali, è morta nella realtà odierna. Il sindacato, anche in Italia, è l’ombra di quello che fu, mentre il potere delle maggiori imprese dà oggi loro la forza che un tempo fu sindacale. Lo mostrano le ricerche sul loro potere oligopolistico di Angus Dean, Nobel per l’economia nel 2015.
La ricerca citata non impegna la Bce, ma può preparare una revisione concettuale. Ce n’è gran bisogno, il mondo è tanto mutato dagli anni Sessanta in cui si forgiò quella cultura. Perciò negli Usa il presidente Joe Biden vuol ridare ai sindacati il potere perso.
Per andare sul pratico, il governo Meloni, che tanto protesta contro la Bce per gli aumenti dei tassi, anziché irritare i sindacati, azioni la sola leva di politica economica che ha in mano.
Rafforzi, invece di fiaccarla, l’autorità Antitrust, e riparta dalla “Legge concorrenza” del governo Draghi, annacquata dal corporativismo (un lascito fascista?) di Lega e Forza Italia. La rimpingui invece, consentendo alle virtù del mercato, tanto evocate, di dispiegare i loro benefici. Non si parla solo di balneari e tassisti, che parrebbero i poteri forti rimasti in Italia, ma anche di libere professioni e commercio.
Altro che “Non disturbare chi vuole fare”, ce n’è di cose da fare e c’entrano anche le tasse. Meloni darebbe così una mano alla Bce sui tassi d’interesse, gravosi per il nostro debito pubblico. Anche lei, però, nel suo video promozionale, chiama “tesoretto” una spesa da finanziare a debito, come un qualsiasi politicante insensibile al bene comune. Non sarà semplicemente rimasta tale?
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