Draghi aggiunge un elemento importante all’analisi del suo rapporto sulla produttività in Europa: l’importanza di sostenere la domanda per far crescere la produttività e la crescita. È un altro passo verso la sconfessione delle politiche sciagurate degli anni dieci del duemila, di cui l’ex presidente della Bce era stato protagonista
Mario Draghi ha colpito ancora. Dal rapporto che l’ex presidente della Bce aveva presentato nel settembre scorso emergono con forza due messaggi. Il primo è che l’Europa è all’ultima spiaggia e, se non vuole rimanere irrimediabilmente indietro nella corsa alle transizioni ecologica e digitale, deve metter mano in profondità alle proprie politiche e alle modalità di governo dell’economia.
Il secondo messaggio è che la sfida delle transizioni e del recupero del ritardo di produttività e crescita del vecchio continente non può essere lasciata solo ai mercati. Al contrario, un massiccio sforzo in termini di investimento pubblico è necessario per accompagnare le imprese private che da sole non avranno mai le risorse (né gli incentivi) per la trasformazione strutturale dell’economia europea. Draghi avanzava anche timidamente la proposta di un debito comune europeo, immediatamente rispedita al mittente dai governi dei paesi detti “frugali”, con la Germania in testa.
L’austerità nemica della crescita
Draghi è tornato sul tema della produttività e del ritardo europeo nei confronti degli Stati Uniti in un discorso tenuto prima di Natale al Cepr di Parigi, dove ha aggiunto un importante elemento al quadro dipinto nel rapporto di settembre: l’ex presidente della Bce ha infatti sostenuto che uno dei motivi principali per il rallentamento della crescita della produttività è una ormai cronica insufficienza di domanda.
A partire dalla crisi del 2008, l’Europa si è avvitata in una sorta di stagnazione auto inflitta, in cui politiche di bilancio restrittive e compressione dei salari hanno ridotto la domanda domestica. Agli elevati risparmi dei consumatori si è aggiunta la stagnazione degli investimenti delle imprese e il minore contributo alla crescita di consumi e investimenti pubblici, compressi dalle politiche di austerità. Draghi ci dice che «tra il 2009 e il 2019, […] il governo degli Stati Uniti ha iniettato fondi nell’economia pari a 14 volte quello che hanno fatto i paesi dell’eurozona: 7800 miliardi contro 560 […] L'area dell'euro ha sperimentato lunghi periodi in cui l'economia funzionava al di sotto del potenziale e questa incapacità di mantenere una domanda elevata si ripercuote poi sulla crescita della produttività».
Il mito delle esportazioni
Negli anni dieci del duemila l’Europa è cresciuta principalmente grazie alle esportazioni, compensando così la mancanza di consumi e investimenti, pubblici e privati. La compressione della domanda domestica, in questa ottica, non è stata fortuita: al contrario, austerità e compressione dei salari avevano l’obiettivo di aumentare la competitività di prezzo delle nostre imprese.
È ancora Draghi, sorprendentemente senza peli sulla lingua, a notare che dal 2008 la crescita dei salari reali è stata quattro volte più elevata negli Stati Uniti che da noi; non per caso, ma per una deliberata scelta di politica economica.
Il contesto geopolitico emerso negli ultimi anni mostra quanto questa strategia fosse miope e alla lunga non potesse essere vincente: il periodo di grazia in cui l’Europa sembrava capace di poter crescere esportando nei paesi emergenti e negli Stati Uniti è chiaramente dietro di noi, e non solo a causa della vittoria di Trump.
Come ci ricordano i molti provvedimenti protezionisti presi dall’amministrazione Biden, sulla politica commerciale e sul (non) sostegno al multilateralismo, le differenze tra Democratici e Repubblicani non sono poi così marcate. Allo stesso modo, non era difficile immaginare che la Cina avrebbe prima o poi smesso di essere un mercato, per diventare un concorrente.
Rilanciare la domanda per più produttività
Draghi conclude che una delle precondizioni perché la produttività in Europa ricominci a crescere è un rilancio della domanda, pubblica e privata. Le piste evocate sono molte, alcune già presenti nel rapporto di settembre: integrazione dei mercati dei captali e sviluppo di quelli azionari, per facilitare il finanziamento delle imprese; un debito europeo per gli investimenti pubblici; estendere a sette anni il periodo di aggiustamento richiesto dal Patto di stabilità.
L’enfasi di Draghi sul ruolo della domanda per rilanciare la crescita è doppiamente interessante perché, pur senza menzionarlo esplicitamente, fa riferimento a un concetto controverso, la legge di Kaldor-Verdoorn, secondo la quale c’è una relazione causale tra la crescita della domanda e quella della produttività: in un contesto di domanda attesa effervescente le imprese tendono a investire e a innovare di più.
La legge di Kaldor-Verdoorn in genere trova riscontro nei dati. Lo stesso Draghi cita studi che mostrano come le spese per ricerca e sviluppo siano procicliche, quindi più alte quando l’economia cresce al di sopra del potenziale.
Ciononostante, è vista come il fumo negli occhi da molti economisti di ispirazione liberale che, se dovessero ammettere che stimolare la domanda può portare benefici in termini di crescita di lungo periodo, vedrebbero vacillare seriamente il loro impianto teorico di riferimento, secondo il quale le sole politiche capaci di stimolare le crescita sono quelle che sostengono l’offerta: gli aiuti alle imprese e alle classi più agiate, teoricamente più produttive; le riforme strutturali, in particolare sul mercato del lavoro; la politica della concorrenza, e via di seguito.
Molti economisti, pur ammettendo a malincuore che recessioni prolungate portano a distruzione di capitale tangibile e intangibile, riducendo la crescita di lungo periodo, non sono disposti ad accettare che, simmetricamente, “surriscaldare” l’economia, soprattutto in periodi di forte instabilità e cambiamenti strutturali, potrebbe stimolare investimenti, produttività e in ultima istanza la crescita.
Come per il rapporto di settembre, se sulle soluzioni offerte da Draghi ci può essere dibattito, sulla diagnosi è difficile non essere d’accordo. Certo, c’è una certa amarezza nel vedere uno degli artefici di quella illusoria stagione della “crescita trainata dalle esportazioni” cambiare radicalmente la propria analisi senza nemmeno un’ombra di autocritica: la Bce di Draghi prese infatti più volte posizione a favore dell’austerità, delle riforme del mercato del lavoro volte a ridurre i costi e ad aumentare la competitività, mentre pochi economisti, in maggioranza anglosassoni, si sgolavano a ripetere che una grande economia non può affidarsi alle sole esportazioni per crescere (chi scrive parlava di “sindrome del piccolo paese” già nel 2013, sul Sole 24 Ore).
Ma sull’amarezza prevale la soddisfazione di vedere che finalmente, in Europa, voci autorevoli contestano l’approccio mercantilista che ancora sembra prevalere tra le élite di alcuni paesi, invitando a concentrarsi sulla produttività piuttosto che sulla competitività, a sostenere la domanda domestica, a rilanciare l’investimento pubblico. È dall’impianto analitico che emerge del rapporto Draghi, con l’importante complemento del discorso di Parigi, che occorre partire per ripensare radicalmente il modo di funzionare delle istituzioni europee e rilanciare infine la crescita e la produttività.
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