Mettere insieme le sparse membra delle diversità e differenziazioni etniche, sociali, culturali, persino di genere, che i democratici pensavano avrebbero comunque prodotto una maggioranza elettorale “naturale”, continua a essere un compito molto complicato
Gli Usa che sono andati a votare sono un paese che molti americani e molti osservatori non hanno saputo e forse non hanno voluto vedere. Il motto federalista “e pluribus unum” da tempo non coglieva più la realtà.
L’integrazione del melting pot era garantita dalla supremazia wasp (white anglo saxon protestant) venuta meno quando neppure i wasp ci credevano più. Una parte di loro si ritraeva per complesso di colpa: non avere sconfitto e superato definitivamente la discriminazione, il razzismo. Una parte si è ricompattata per proteggere sì, certo, i loro posti di lavoro, ma soprattutto i loro valori e i loro stili di vita.
Li hanno sentiti minacciati, dalla affirmative action, dal politically correct, dal femminismo. La guerra “culturale” strisciante ha fatto molte vittime soprattutto fra coloro che si sentivano perdenti e i cui figli capivano che le loro aspirazioni ad una vita migliore di quella dei genitori non sarebbero state soddisfatte.
Dall’altra parte, i wasp affluenti, progressisti e multiculturali vedevano, per lo più con compiacimento, le tendenze demografiche e culturali come un grande flusso, compatibile con tutte le interpretazioni sociologiche del passato, non solo come arricchimento complessivo, ma come un fenomeno che avrebbe inevitabilmente giovato alle sorti elettorali dei democratici.
Tensioni e contraddizioni erano tutte temporanee, superabili e risolvibili. Lo evidenziò con acume Alexis de Tocqueville: «Quando c’è un problema gli americani si associano». La virtù massima del pluralismo associativo è che cross-cutting, vale a dire che coinvolge uomini e donne di più classi sociali, e che è overlapping, quegli uomini e quelle donne fanno parte di più associazioni. Gli inevitabili scontri non degenereranno mai. Anzi, associandosi, si produce capitale sociale, nascono reti di relazioni che proteggono da sfide e catastrofi con scambio reciproco di solidarietà ogni volta che è necessario.
Al mai venuto meno razzismo nei confronti dei neri, si è aggiunta una fortissima diffidenza e contrarietà nei confronti dei latinos. Sono loro gli immigrati da bloccare, anche con un lungo muro. Sono loro i clandestini da respingere. Sono loro i portatori di una cultura non integrabile. Sono loro quella minoranza, peraltro cospicua, che, si teme, si spera, stia cambiando, cambierà il volto elettorale degli Usa.
Gli svantaggiati, coloro che sentono di stare declinando economicamente e socialmente, spesso non hanno neppure le risorse per mettersi insieme, associarsi, produrre e scambiare capitale sociale. Talvolta, addirittura identificano il loro declino con quello del loro paese e mettono il loro orgoglio al servizio del rilancio della grandezza perduta: Make America Great Again.
Simile è l’obiettivo dei repubblicani del business e dei privilegi da mantenere. Uno di loro, Donald Trump è l’imprenditore politico di successo. Ha raccolto prepotentemente tutto lo scontento di settori in parte già repubblicani.
Ha conquistato e ridefinito il partito repubblicano. Ha incanalato quello scontento in grande consenso elettorale.
Mettere insieme le sparse membra delle diversità e differenziazioni etniche, sociali, culturali, persino di genere, che i democratici pensavano avrebbero comunque prodotto una maggioranza elettorale “naturale”, continua a essere un compito molto complicato.
L’afroamericano Barack Obama vinse in parte perché ci riuscì, ma, in parte forse maggiore, perché i suoi due oppositori-sfidanti, John McCain e Mitt Romney, non avevano nessuna delle qualità indispensabili ad un imprenditore dello scontento. Anche qualora Kamala Harris sia riuscita a creare la coalizione delle diversità la riduzione dello scontento e il rilancio dell’American dream, in patria e sulla scena mondiale sarà una missione difficilissima. God bless America.
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