- È noto che il titolo di un libro è un affare di marketing, un’inevitabile semplificazione che sempre nasconde qualcosa del contenuto e a volta può arrivare addirittura a travisarlo o tradirlo. Il legittimo imperativo che guida il titolo è vendere.
- Il Suicidio occidentale è un titolo evocativo, che in questo caso non significa che è poetico o suggestivo, ma che letteralmente evoca un apparato di concetti, assunti culturali, parole, posture e convinzioni.
- La visione suicida della storia delle civiltà è stata ripresa e aggiornata da una schiera di intellettuali conservatori, che l’hanno resa una chiave interpretativa essenziale per spiegare lo stato tragico in cui versa la contemporaneità, infiacchiata dall’odio di sé.
Non mancheranno il tempo e l’inchiostro digitale per esaminare nel dettaglio storie e argomentazioni esposte nel nuovo libro di Federico Rampini, Suicidio occidentale (Mondadori). Qui ci si limita alla recensione del titolo.
È noto che il titolo di un libro è un affare di marketing, un’inevitabile semplificazione che sempre nasconde qualcosa del contenuto e a volta può arrivare addirittura a travisarlo o tradirlo. Il legittimo imperativo che guida il titolo è vendere.
Il Suicidio occidentale è un titolo evocativo, che in questo caso non significa che è poetico o suggestivo, ma che letteralmente evoca un apparato di concetti, assunti culturali, parole, posture e convinzioni.
Evoca anche direttamente, cioè cita, se non vogliamo parlare di copia-incolla, altri titoli di altri libri che si inseriscono in una certa tradizione di pensiero, quella conservatrice.
Siamo ai confini di quello che gli americani chiamano dog whistle: una parola o una formula che presa alla lettera ha un certo significato, ma che interpretata da un uditorio che condivide un retroterra comune diventa un termine codificato che rimanda a qualcosa di sconveniente o addirittura indicibile.
Il ricorso al dog whistle normalmente è associato a pratiche scabrose o indecenti: dire “cosmopolita” per far intendere “ebreo” a una platea che cova istinti antisemiti è un caso di scuola.
Nel caso del titolo di Rampini non c’è nulla di scandaloso, semplicemente associare i termini “suicidio” e “occidente” rimanda a una tradizione conservatrice che risale – almeno – a Oswald Spengler, l’autore de Il tramonto dell’occidente, testo fondamentale per generazioni di intellettuali conservatori, da Whittaker Chambers, fino al teorico dello scontro di civiltà Samuel Huntington passando per Pat Buchanan, progenitore del nazionalismo trumpiano, che ha omaggiato il filosofo tedesco con il libro The Death of the West.
Una delle idee fondamentali di Spengler è che la modernità occidentale è arrivata alla fase di declino per via del suo carattere “faustiano”: si industria e si protende per trovare la propria soddisfazione, ma in fondo sa che ciò che cerca è irraggiungibile.
Da questa premessa deriva il carattere tragico della civiltà occidentale, e da qui emerge anche la figura del suicidio come modalità inevitabile con cui si consuma la sua fine. L’occidente non tramonta perché soppiantato da un’alternativa più forte o persuasiva, ma per autoeliminazione.
Will Durant, filosofo americano di una generazione successiva a quella di Spengler e spengleriano a modo suo, diceva: «Una grande civiltà non viene conquistata dall’esterno finché non ha distrutto sé stessa dall’interno». Mel Gibson, non proprio uno specchiato progressista, ha scelto questa frase come esergo al film Apocalypto, che legge il declino delle civiltà precolombiane come effetto dello svuotamento di sé e non per opera della conquista altrui.
La visione suicida della storia delle civiltà è stata ripresa e aggiornata da una schiera di intellettuali conservatori, che l’hanno resa una chiave interpretativa essenziale per spiegare lo stato tragico in cui versa la contemporaneità, infiacchita dall’odio di sé.
James Burnham, teorico supremo del conservatorismo americano del Dopoguerra che, come tanti, veniva dal trotzkysmo, ha scritto nel 1964 Il suicidio dell’occidente, progenitore del titolo di Rampini. La premessa del suo ragionamento era questa: «Il suicidio è probabilmente più frequente dell’omicidio nella fase finale di una civiltà».
Per Burnham «il liberalismo è l’ideologia del suicidio occidentale» e il problema fondamentale del liberalismo – cioè che lo distingueva dalla tradizione precedente – era la convinzione che l’uomo fosse un essere originariamente incorrotto e perciò in grado di cambiare, rigenerarsi e realizzarsi a proprio piacere.
Una volta constatata l’impossibilità di tale tentativo, ragionava Burnham, il suicidio è l’unica opzione possibile. Qui non si vuole suggerire che Rampini vada in questa direzione, soltanto che il libro di Burnham ha avuto un’influenza così profonda sull’immaginario conservatore da rendere impossibile leggere le parole suicidio e occidente slegate da questo quadro ermeneutico.
Anche Irving Kristol, allievo di Leo Strauss e fondatore di quella che, in odio al termine “movimento”, ha chiamato la “persuasione” dei neoconservatori, ha lavorato a lungo su questa direttrice, specialmente quando la fine della Guerra fredda sembrava aver aperto la strada per il trionfo defintivo del paradigma liberale: «Lungi dall’essere finita, la mia Guerra fredda è cresciuta d’intensità, dato che settore dopo settore la vita americana è stata corrotta dall’ethos liberale. Si tratta di un ethos che tende contemporaneamente al collettivismo politico e sociale, da una parte, e all’anarchia morale dall’altra. Non può vincere, ma può farci perdere tutti», scriveva, alludendo sempre alla teoria del suicidio.
Il suicidio dell’occidente è anche il titolo di un più recente volume di Jonah Goldberg, altro opinionista conservatore legato storicamente alla National Review, la rivista fondata William Buckley, e teorico del “fascismo liberale”, uno che avrebbe potuto tranquillamente scrivere che «in Europa il conformismo totalitario può avere il volto seducente di Greta Thunberg e Carola Rackete», se soltanto non l’avesse scritto Rampini.
C’è pure un libro-intervista a Roger Scruton, decano dei conservatori britannici di tradizione burkeana e riferimento culturale di Giorgia Meloni nella fase di graduale liberazione dalla monocultura della destra sociale, che si chiama, guardate un po’, Il sucidio dell’occidente. E questo per tacere de Il suicidio francese di Eric Zemmour, libro che batte sugli stessi tasti spengleriani dei suoi predecessori ideali.
La lista di chi da destra racconta la pulsione suicida dell’occidente è lunga e se c’è un libro recente da citare per comprendere un’assortita famiglia di intellettuali è Why liberalism failed di Patrick Deneen, straordinario successo editoriale negli Stati Uniti che per qualche ragione in Italia non è mai stato tradotto. O forse una ragione c’è: quello spazio lo occupa idealmente il Suicidio occidentale di Rampini, che è autorizzato a pubblicare titoli di destra perché ha le credenziali della sinistra. Il libro è in testa alla classifica di Amazon.
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