- Da aprile i disaccordi sul da farsi nel Consiglio Bce sono cresciuti e hanno portato alla svolta di luglio, quando è cominciato l’aumento dei tassi. Probabilmente le differenze di opinioni ci sono state anche per l’aumento di giovedì scorso.
- Qualcuno vorrebbe più chiarezza sui criteri dei prossimi aumenti. Ma è difficile annunciare regole quando si normalizza una politica per anni eccezionalmente espansiva. Non è comunque chiaro come sarà realizzata l’annunciata contrazione dell’inflazione.
- Per l’Italia la normalizzazione monetaria è dura. Il debito pubblico è molto elevato e la sospensione dell’acquisto di titoli da parte della banca centrale, insieme all’aumento dei tassi, renderanno il rifinanziamento del Tesoro sempre più delicato e costoso.
È il 14 aprile scorso: il Consiglio della Bce riunito per decidere la politica monetaria. Da mesi l’inflazione accelera: come spiega Phillip Lane, il membro del Comitato Esecutivo responsabile dell’analisi economica, è saltata al 7,5 per cento dal 5,9 di febbraio. Ma il Consiglio decide di non variare i tassi. L’aumento dell’inflazione è considerato dalla maggioranza di breve durata.
Si discute se l’impennarsi dei prezzi possa entrare in circolo vizioso con quello dei salari, se le retribuzioni cercano di recuperare il potere d’acquisto perduto.
Falchi e colombe
Le opinioni sono diverse anche sulle aspettative. Alcune settimane dopo ogni riunione del Consiglio ne viene pubblicato un “rendiconto”.
Quello di aprile riporta: «Secondo alcuni membri ci sono segni crescenti che l’inflazione sta entrando nelle aspettative e che queste cominciano a disancorarsi dall’obiettivo della stabilità dei prezzi; costoro pensano che sia importante agire rapidamente per dimostrare che il Consiglio è determinato a riportare la stabilità dei prezzi, evitando che l’aumento delle aspettative di inflazione renda più costoso l’aggiustamento necessario. Ritengono che una politica monetaria molto accomodante non è più coerente con le previsioni di inflazione, perché stimola la domanda aggregata con tassi di interesse reali molto negativi».
I rendiconti usano riferire i principali dissensi emersi nelle riunioni, ma da aprile lo spazio che viene loro dedicato è in netta crescita.
Probabilmente ciò vuol dire che i dissensi sono cresciuti. Hanno portato alla svolta di luglio quando, cessati gli acquisti di titoli, la Bce ha cominciato a far crescere i tassi.
È anche probabile che i dissensi rimarranno, fra chi vuole far aumentare i tassi più e meno svelto.
A differenza della Fed, che pubblica con trasparenza i voti dei membri del suo Comitato, la Bce non ci fa sapere di più.
Le divergenze non devono essere mancate nel Consiglio della Bce nemmeno giovedì, quando i tassi sono stati aumentati di un altro mezzo punto, come aveva fatto il giorno prima la Fed.
Rimangono i falchi e le colombe, anche se la decisione di affrontare con coraggio l’inflazione è ora ampiamente condivisa. Molti osservatori vorrebbero più chiarezza sui criteri con cui proseguirà l’aumento dei tassi.
Sulle prossime mosse per ora la Bce dice due cose apparentemente in contrasto: vi saranno diversi altri aumenti di mezzo punto ma «le nostre decisioni dipenderanno dai dati, di riunione in riunione».
Se, ad esempio, l’economia rallentasse più bruscamente della recessione «breve e superficiale» che la banca centrale prevede, prevarrebbe la continuazione dei rialzi dei tassi o la novità dei dati congiunturali che indurrebbe a ridurli o smetterli?
La normalizzazione pericolosa
Queste incoerenze e incertezze, le stesse divergenze di opinione fra i banchieri centrali, sono inevitabili durante il rientro dalle politiche di eccezionale espansione troppo frequenti e lunghe nei due decenni scorsi. E dopo che le banche centrali si sono fatte sorprendere dall’inflazione e hanno tardato troppo a muoverle contro – la Bce con quattro mesi di ritardo in più.
Tocca dare alle banche centrali il tempo per fare l’acrobazia: tornare a manovrare entro intervalli di tasso più normali e a sgonfiare i loro bilanci dall’accumulo di titoli che li ha sfigurati.
La cosiddetta “normalizzazione” è difficile e pericolosa: potrebbe mancare l’obiettivo di ridurre l’inflazione, facendo perdere del tutto la credibilità alle autorità monetarie; potrebbe invece mordere troppo i bilanci finanziari di banche, imprese e persino governi, deprimendo i corsi dei titoli e asciugando troppo la liquidità, creando incidenti o addirittura crisi di solvibilità; potrebbe aver successo sull’inflazione ma causare tali rallentamenti della produzione da rendere irresistibile la tentazione di tornare ai tassi nulli e ai massicci acquisti di titoli.
L’anormale non ha regole: è difficile chiedere di seguire da vicino una regola per normalizzare; le decisioni dovranno per forza dipendere da come starà riuscendo l’acrobazia.
Dopo però: basta. La politica monetaria deve cancellare le sue ambizioni di sospingere la crescita reale quando lo impediscono cause reali che spetta ad altri rimuovere.
Deve tornare a spiegare la regola che vuol seguire nel fissare i tassi e deve legarsi le mani, impedendosi interventi troppo violenti.
Qualcuno ha detto che la politica monetaria fa il suo mestiere quando è noiosa, non quando fa notizia anche per chi non sa davvero in che cosa consiste.
Se nuovi cigni neri causeranno crisi eccezionali, la regola potrà subire eccezioni, le mani si potranno slegare, ma per poco tempo. Il «poco tempo» è insito nel compito delle politiche monetarie che è di rimediare a carenze di liquidità che possano causare recessioni e deflazioni, o di riasciugare liquidità eccessiva che possa alimentare l’inflazione.
Il riequilibrio della liquidità è questione di breve periodo, di tassi a breve, a differenza della perenne ricerca di spingere la crescita e della compressione forzata dei tassi a lungo termine.
I tassi di interesse reali
Dopo un inflazione del 10 per cento in novembre e dell’8,4 per cento nella media di quest’anno, la Bce cita una previsione del 6,3 nella media del 2023; nei due anni seguenti: 3,4 e 2,3. La velocità di aumento dei prezzi è al momento tre punti più alta che negli Usa, dove i tassi di interesse sono due punti più alti e dove l’inflazione è prevista rientrare più rapidamente nei prossimi anni.
Negli Stati Uniti è più bassa non solo l’inflazione ma anche la crescita, soprattutto per il fatto che il loro Pil rimbalza meno avendo perso la metà del Pil che abbiamo perso noi con la pandemia nel 2020.
A differenza della Bce, la Fed ha comunicato i tassi a breve che il suo Comitato prevede di decidere nei prossimi anni. Togliendo da questi tassi le previsioni di inflazione date da Powell, risulta che la Fed ritiene di rallentare l’aumento dei prezzi portando il tasso di interesse a breve reale, cioè al netto dell’inflazione, al 2 per cento nella media dell’anno prossimo e lasciandolo poi calare verso l’1 per cento nei due anni seguenti. Ciò sembra ragionevole.
Se però anche la Bce dovesse mirare a un tasso reale del 2 per cento, con l’inflazione prevista i suoi tassi dovrebbero balzare dal 2,5 attuale a più dell’8 per cento medio l’anno prossimo: altro che qualche altro rialzo di mezzo punto!
Il calcolo è paradossale, ma credo esprima l’idea che, al netto dell’inflazione, i tassi sono ancora molto negativi e per fermare l’inflazione vanno alzati piuttosto rapidamente. Da questo punto di vista hanno torto le colombe che avrebbero voluto meno di mezzo punto in più e può darsi che abbiano ragione i falchi che volevano di più.
Gli spread dell’Italia
Per l’Italia la normalizzazione monetaria è dura. Il debito pubblico è molto elevato e la sospensione dell’acquisto di titoli da parte della banca centrale, insieme all’aumento dei tassi, renderanno il rifinanziamento del Tesoro sempre più delicato e costoso.
Un giorno dopo la riunione di giovedì i rendimenti dei titoli del Tesoro italiano a 10 anni sono 45 punti più alti ed è 25 punti più alta la loro differenza dagli analoghi tassi tedeschi.
Lo spread con la Germania sta raggiungendo i 220 punti, quasi 90 in più che a inizio anno. Ma i nostri tassi a 10 anni sono ora un centinaio di punti maggiori anche di quelli spagnoli, 160 più di quelli francesi e persino un pelo più alti di quelli greci.
Il costo medio all’emissione dei nostri titoli di Stato calcolato dal Tesoro era stato incredibilmente piccolo l’anno scorso: 0,1 per cento. Già a fine settembre era balzato all’1,31 per cento, come poco prima dell’inizio del Quantitative Easing.
La vita media del nostro debito pubblico ci lascia un po’ di tempo prima di vederci costretti a rifinanziamenti molto più costosi. Ma nel frattempo dobbiamo mandare al mercato segnali certi di estrema prudenza nei disavanzi e buona qualità delle spese pubbliche, che devono aiutare il paese a migliorare le sue possibilità di crescita senza inflazione.
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