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Il fallimento della banca californiana Svb sia un’altra Lehman. Ma è una delle tante crepe che si stanno aprendo nel sistema finanziario.
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Le banche centrali non hanno tenuto in adeguata considerazione gli effetti sulla stabilità finanziaria del rapido aumento dei tassi e della forte restrizione della liquidità causata dalla fine del quantitative easing.
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I titoli bancari crollano anche in Europa, perché il meccanismo perverso dell’aumento dei tassi è identico. Meglio che la Bce si prenda una pausa nell’aumentare i tassi.
Dopo il fallimento della banca californiana Svb, c’è il rischio di un effetto contagio, come avvenne nel 2008 con Lehman Brothers? Secondo i mercati, si direbbe di sì: vendite indiscriminate di titoli bancari, non solo americani, con l’indice delle banche dell’Eurozona che ha perso in pochi giorni il 10 per cento.
Per ora, mi sento di affermare il contrario; tuttavia il fallimento della banca californiana è una delle tante crepe che si stanno aprendo nel sistema finanziario; e una chiara indicazione che le banche centrali non hanno tenuto in adeguata considerazione gli effetti sulla stabilità finanziaria del rapido aumento dei tassi e della forte restrizione della liquidità causata dalla fine del quantitative easing (Qe), che sono diventati una fonte di volatilità che si sarebbe potuta evitare.
Dietro il crollo
Il crollo di Svb non è dovuto a insufficiente capitalizzazione, investimenti rischiosi, leva eccessiva o cattiva gestione. Svb era infatti la banca di Silicon Valley: non investiva o faceva prestiti al venture capital, ma raccoglieva i depositi delle start up tecnologiche (frutto dell’ampia raccolta dei fondi che le finanziavano) e forniva loro servizi.
La fine del Qe ha però ridotto anche la liquidità di questi fondi, e le società tecnologiche hanno così dovuto ricorrere maggiormente ai depositi presso Svb per finanziare il proprio sviluppo.
Quando dal bilancio annuale della banca sono emerse le perdite potenziali sui titoli detenuti, perdite non realizzate ma che avrebbero causato un buco nel capitale della banca se questa avesse dovuto venderli per far fronte a una carenza di liquidità, è scattata la corsa ai depositi.
Le minusvalenze potenziali erano prevalentemente su titoli di stato e obbligazioni ad alto rating che la banca teneva proprio perché privi di rischio, ma il cui valore di mercato è stato abbattuto dall’aumento dei tassi imposto dalla Fed.
Se una banca non deve vendere i titoli per fronteggiare una crisi di liquidità, il problema non si pone, ma basta il timore che lo debba fare, per scatenare la fuga e innescare la crisi che porta al fallimento.
Corsa agli sportelli
Il fallimento di Svb ha dato l’avvio alla corsa ai depositi di tante le banche che potrebbero dover realizzare minusvalenze sui titoli in portafoglio.
A rischio, per esempio, c’è First Republic che ha grossi perdite potenziali su titoli garantiti da mutui (anche questi a basso rischio) e un’altra ventina di banche regionali.
Ci sono poi i fallimenti di Silvergate e Signature, due banche per criptovalute, i cui clienti, dopo i recenti crolli, hanno convertito in dollari i depositi cripto e li hanno ritirati.
E c’è infine la forte concorrenza ai depositi del Tesoro americano che dopo gli aumenti della Fed permette di investire in Treasury Bills a 6 mesi senza rischi a quasi il 5 per cento.
La regolamentazione bancaria insiste sulla patrimonializzazione e il rischio (teorico) delle attività: ma Svb ci ricorda che le insolvenze originano sempre da una crisi di liquidità.
È intrinseco nell’attività bancaria, che si finanzia con depositi a breve per dare a prestito o investire in titoli a lungo termine.
E quando le banche centrali alzano repentinamente i tassi e tolgono liquidità dal mercato, come stanno facendo, anche i titoli “privi di rischio” per la regolamentazione, diventano potenzialmente rischiosi se i depositanti decidono di trasferire altrove i propri soldi; anche perché, con l’aumento dei tassi, si deve fronteggiare la concorrenza del Tesoro.
Non credo che Svb sarà la nuova Lehman Brothers: questa volta le autorità federali sono intervenute immediatamente per bloccare la crisi di liquidità, garantendo tutti i depositi delle banche fallite, non solo quelli fino a 250.000 dollari dell’assicurazione, e aprendo una linea di credito speciale presso la Fed dove le banche possono dare in garanzia i titoli al loro valore nominale: di fatto un bail out mascherato.
Ma la cartina di tornasole arriverà settimana prossima con la riunione della Fed: già il mercato sconta che la banca centrale non aumenterà i tassi almeno fino a quando non sarà rientrato il rischio di contagio.
Ma se la Fed dovesse invece reiterare la politica incondizionata di lotta all’inflazione, il rischio di una crisi finanziaria può diventare reale.
Il contagio
Perché crollano i titoli bancari in Europa, così lontano dalla Silicon Valley e dalle banche per le criptovalute? Perché il meccanismo perverso dell’aumento dei tassi è identico.
Per esempio, stimo che nel corso del 2022 il valore di mercato dello stock di titoli di stato italiani sia crollato di 460 miliardi (ipotizzando una durata finanziaria tra i 5 e i 7 anni).
La maggioranza delle perdite sono a carico della Bce, e ci sono già state polemiche al riguardo.
Ma le banche italiane ne detengono 410 miliardi la cui valorizzazione, insieme agli altri titoli “privi di rischio”, tra perdite realizzate, non realizzate ma contabilizzate e potenziali su titoli immobilizzati, ha un forte impatto sui conti (anche se impossibile da quantificare con precisione).
Questo non è un problema per le banche che hanno una base di depositi ampia e stabile; ma lo è per quelle con una raccolta meno stabile (quelle di minori dimensioni o quelle online).
Inoltre, tutti i depositi sono esposti alla concorrenza dello Stato (oggi un Bot rende il 3,3 per cento oltre alla tassazione agevolata).
C’è poi il rischio che qualche banca i titoli li debba vendere non potendo rifinanziare interamente sul mercato i prestiti Tltro della Bce in scadenza quest’anno: per le banche italiane sono 331 miliardi, secondo gli ultimi dati disponibili.
Al rischio liquidità si aggiunge quello delle attività rischiose in portafoglio, o dei prestiti concessi a chi investe in attività poco liquide o con una leva elevata.
L’instabilità finanziaria
Una crepa di questo tipo è già emersa a inizio marzo, con il default di Blackstone (uno dei maggiori fondi di private equity al mondo) su un’obbligazione da 453 milioni emessa nel 2018 per finanziare l’acquisto di una società immobiliare finlandese.
Non siamo al tempo dei sub-prime, e l’indebitamento a fronte degli immobili è molto più contenuto.
In tutti i paesi europei, tuttavia, il basso costo del denaro causato dal Qe ha creato una bolla del mattone che ora l’impennata dei tassi sui mutui sta sgonfiando; pandemia e smart working hanno poi fatto crollare il valore di uffici e centri commerciali. E i tassi bassi hanno favorito un aumento della leva dei fondi di private equity.
Il mercato non conosce esattamente quale sia l’esposizione delle singole banche europee ai leveraged loan (i finanziamenti al private equity), alle grosse posizioni immobiliari, e ai prodotti strutturati, nonché quale siano precisamente le perdite potenziali sui titoli, o come intendano rifinanziare il loro Tltro; e nell’incertezza si vende. Prima si fa chiarezza, meglio è.
Ma non basta. Come per la Fed, per scongiurare il rischio di crisi finanziaria, è necessario che la Bce nella riunione di giovedì prossimo, qualora mantenesse l’aumento preannunciato dei tassi dello 0,5 per cento (meglio se fosse 0,25), chiarisca che gli aumenti cesseranno fino a quando la situazione finanziaria si sarà stabilizzata, e che gli aumenti non sono più incondizionati.
Meglio prendersi una pausa e aspettare di verificare gli effetti della stretta monetaria adottata fin qui, invece di rischiare una crisi finanziaria, che comincia sempre con piccole crepe, ma che alla fine fanno crollare il muro.
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