Furono d’oro insieme nell’agosto del 2021 ai Giochi di Tokyo, nel giro di pochi minuti, due imprese inedite e inimmaginabili. Oggi Gimbo è rimasto il solo a vincere ancora, ai Mondiali di Budapest, insieme alla coerenza della sua storia e a una continuità rimasta intatta in tutta la carriera
Adesso è più facile per tutti, basta stare dalla parte del vincitore. Ce n’è uno, si chiama Gianmarco Tamberi, è il capitano della squadra italiana di atletica, ha vinto l’oro ai mondiali dopo quelli delle Olimpiadi e degli Europei, ha festeggiato ridendo e facendo ridere fino alle lacrime (di gioia, di commozione, di puro divertimento), si è preso definitivamente il suo posto nel cuore della gente e nei libri di storia dello sport.
Due anni fa era più difficile: di vincitori ce n’erano due, nello stesso giorno, il giorno in cui si incrociarono i pianeti e chissà cos’altro per generare una coppia di ori olimpici in venti minuti, nelle gare forse più belle in assoluto dello sport. Altius e citius: Tamberi che vinceva l’alto e poi andava ad aspettare l’arrivo dei 100 metri, soffocando con il suo abbraccio il neo campione Marcell Jacobs. Per i giornali e le televisioni fu duro quel giorno: mettere insieme due storie così enormi, due imprese così inedite e inimmaginabili.
Tamberi era felice come un bambino, Jacobs lo faceva vedere meno, eppure la gara della visibilità la vinse lui, il velocista che pareva un marines, con lo sguardo un po’ torvo e i muscoli molto grandi e tatuati, l’uomo che portava il Paese nella vertigine della velocità. Gianmarco se ne fregò, come era sacrosanto: aveva il suo oro olimpico, pazienza se quello del compagno gli aveva forse sottratto uno spiraglio di luce perché era un oro più pesante del suo.
Adesso i pianeti si sono disallineati, e in questa nuova stagione di ritrovata normalità, con gli americani a vincere i “loro” 100, Tamberi è rimasto solo, insieme però alla coerenza della sua storia, come se tutto davvero avesse un senso, un senso perfetto: il ragazzo che amava il basket ma che scelse l’atletica, che a 19 anni saltava già 2 metri e 25, che a venti superava per la prima volta l’eccellenza di 2,30, poi mantenuta per oltre un decennio, con eccezioni dovute soltanto all’infortunio che gli tolse l’Olimpiade del 2016.
Mai sceso sotto i 2,30 in una stagione, Tamberi, un agonista che ricorda Federica Pellegrini o Alberto Tomba per capacità di sfidare anche la pressione. Mai un’oscillazione nella sua già lunga carriera, 2,37 saltati a 23 anni, così vicini al 2,36 di martedì a Budapest, il record italiano di 2,39 ottenuto nel 2016, la sera stessa in cui si staccò quel tendine d’achille che gli costò i Giochi, poi una ripresa dall’infortunio rapida e lineare, fino al 2.37 olimpico a Tokyo.
Tutto così meravigliosamente alla luce del sole, un po’ come lui, che in piazza mette se stesso e i suoi guai, si porta il gesso in pista, parla del rapporto interrotto col padre dedicandogli però medaglia d’oro, suona la batteria prima della gara, si tuffa tra le braccia di amici e nella vasca delle siepi, insomma, fa ciò che sa fare: essere quello che è, e condividerlo con il mondo.
Un po’ tutto il contrario di Jacobs, cui adesso resta la frazione della staffetta per riprendersi un poco di luce. Tiferemo tutti per lui, anche quelli che non hanno capito bene la sua carriera, in effetti fuori dai canoni: lui che a 19 anni saltava in lungo, anche bene; lui che a 24 ha scelto i 100 metri, restando sopra la soglia dell’eccellenza (per noi italiani) dei 10 secondi fino al 2021; lui che in quell’anno magico è migliorato così tanto da prendersi quell’oro correndo in 9”80, un progresso mai visto, in così breve tempo, nella storia dello sprint.
Prima e dopo quei giorni di Tokyo, mai Jacobs è sceso sotto i 9”95, un tempo con cui peraltro non si vincono medaglie ai Giochi o ai mondiali. Forse erano i pianeti incrociati, forse le scarpe magiche felicemente sposate con la pista giapponese, forse i muscoli magnifici, sani e allenati nel modo giusto, mai più replicato. Forse tutto questo tornerà, per Jacobs, che ha due anni meno di Tamberi.
Intanto aspettiamo la staffetta, e aspettiamo pure che insieme al suo allenatore, Paolo Camossi, Marcell esca definitivamente da quel cono un po’ ombroso di riserbo, mezze dichiarazioni, annunci un pelo arroganti e rifiuto costante di un confronto con gli altri, che assieme agli infortuni ha segnato i due anni post olimpici. Essere allegri, istrionici, solari come Tamberi è certamente questione di carattere. Restare chiusi nel proprio mondo è invece una scelta. Ma funziona solo se vinci.
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