- Tik Tok, l’app cinese dove scorri i brevi video realizzati dagli utenti, s’è guadagnata il rispetto dell’Economist che la cita come esempio ideale di “distruzione creativa”, il processo incessante di mutazione industriale con cui il capitalismo si distrugge e si rinnova.
- Il mercato dei social media in Cina è «iper competitivo al punto che quello della Silicon Valley al confronto pare compassato», sicché chi emerge da quella lotta sa generare idee che trovano clienti e ricavi a sussidio delle idee.
- L’occidente aveva stravinto la sfida col capitalismo burocratico sovietico che teneva in gran conto la cultura, ma vuoi per censura vuoi per il conservatorismo siamese del potere, non sapeva trasformare il capitale culturale in buoni affari. La Cina invece, a quanto pare, ci riesce. Quindi è tempo perso aspettare che si smonti da sé.
TikTok, l’app cinese dove scorri i brevi video realizzati dagli utenti, s’è guadagnata il rispetto dell’Economist che la cita come esempio ideale di “distruzione creativa”, il processo incessante di mutazione industriale con cui il capitalismo si distrugge e si rinnova.
Nata dal corpo di Byte Dance, società informatica di Pechino, TikTok in pochi anni ha raggiunto un numero di account e un tempo medio di consumo per utente pari a Meta (Facebook, WhatsApp e Instagram) dimostrando che i piedi dei giganti social (Google, Facebook e compagnia) diventano d’argilla ove vigano libertà di concorrenza e il libero mercato.
Tra capitalismo e comunismo
Il dettaglio interessante è che questo capitalismo industriale, dai connotati esemplarmente liberali, spunti nella Cina comunista. Come minimo c’è molto da capire rispetto al teatrino polemico corrente che contrappone di netto il capitalismo occidentale, di stampo liberale e prevalente sullo stato, al capitalismo politico attuato dai cinesi a ruoli rovesciati. Per non dire della vulgata per cui il capitalismo “nostro” è bastevole a sé stesso mentre quell’altro è slealmente sussidiato.
Dall’Economist veniamo invece a sapere che il mercato dei social media in Cina è «iper competitivo al punto che quello della Silicon Valley al confronto pare compassato», sicché chi emerge da quella lotta sa generare idee che trovano sì utenti, ma anche clienti che forniscono ricavi a sussidio delle idee.
Nel campo dei social, ad esempio, è decisivo dal lato del prodotto fornire app semplici da usare e adatte a un consumo sbrigativo, perché il mezzo elettivo è il videotelefono portatile e non il computer per il quale neppure si predispone la versione.
Il difficile è costituito dal fatto che semplicità e immediatezza devono risaltare a utenti immersi nelle più varie circostanze psicologiche e ambientali, soli nella silente cameretta oppure sballottati nella metro o nel mezzo di un corteo Friday for future.
La soluzione ideale consiste nel coniugare l’essenza del servizio (connettere persone fra di loro o con testi scritti o video) con un consumo scisso dal pensare (il turno del pensiero viene in seguito, quando la mente individuale digerisce gli stimoli sensoriali e i colpi d’emozione ormai acquisiti).
Mettere a punto un servizio social in mezzo a queste sfide richiede ovviamente capitali per licenze di brevetti e analisi d’utenza, alleanze di progetto e industriali ma, soprattutto, mille stesure di software e altrettanti errori e correzioni, per mettere a punto il modello di business e di prodotto.
Così Google, all’epoca uno dei tanti motori di ricerca, è diventata una potenza inventando per la pubblicità i contratti pay per click e, coerentemente con questa impostazione, sviluppando algoritmi di profilazione degli utenti affinché l’incontro fra il click e il pay si verificasse di frequente.
L’esercito dei tecnici
In sostanza, sia per disegnare l’app a misura profonda dell’utente sia per avere merce d’interesse per il mercato è necessario un esercito di tecnici del software. E di questi la Cina è ben fornita perché lo sviluppo culturale di massa è un obiettivo da tempo conseguito.
La convergenza di tante condizioni di mercato, d’impresa e di cultura è sfociata in TikTok dove l’occhio ha sempre la sua parte con le file di balletti di bambini, gli striptease accennati e mai conclusi, i punti neri cavati con l’uncino, gli influencer di un mondo, di un paese o solo di sé stessi. Ma anche, col linguaggio del gesto che gli è proprio, i momenti di decollo cerebrale di Khaby Lane che, muto e impassibile come Buster Keaton, mostra le tortuosità del pensare e dell’agire.
Un mondo nitido dove scopri i nuovi video avanzando con un dito e che comunque non si ferma, perché in assenza di comandi il video ultimo venuto riparte dall’inizio.
Un solo schermo, una sola immagine su cui concentri lo sguardo e l’attenzione. La negazione radicale delle page “cassonetto” in stile Facebook, coi post, le foto, le liste degli amici, la pressione dei messaggi che infestano lo schermo e confondono la vista.
In buona sostanza, dietro questo risultato di prodotto e di mercato c’è un intero ecosistema funzionale e non la sovvenzione del burocrate di stato.
Statale è invece, guarda caso, il non dimenticato intervento, sollecitato a Donald Trump da qualche lobbista americano, volto a costringere TikTok a passare in mani Usa al fine patriottico di impedire ai comunisti di Pechino di spiare i passatempi e le ossessioni dell’adolescente americano. L’Economist lo ricorda ridendo di sottecchi quando afferma che TikTok ha poco da temere dalla reazione dei giganti americani «a meno che Uncle Sam non li aiuti».
La morale finale della storia è tutta politica ed emerge, del resto, in altri campi come chimica, spazio e comunicazioni.
L’occidente aveva stravinto la sfida col capitalismo burocratico sovietico che teneva in gran conto la cultura, ma vuoi per censura vuoi per il conservatorismo che è un siamese di qualunque dittatore, non sapeva trasformare il capitale culturale in buoni affari. La Cina invece, a quanto pare, ci riesce. Quindi è tempo perso aspettare che si smonti da sé sola insieme col muro di un altro 1989.
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