- Francesco Totti e Ilary Blasi simbolo romantico del “per sempre”, una famiglia celebre e famosa, ma allo stesso tempo percepita vicina alla gente, si separano.
- L’ennesima scomparsa di una certezza, al tempo di quella che il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han in La scomparsa dei riti, definisce la società caratterizzata dal crollo dei simboli.
- Gli amori, tutti, portano in sé la naturale vocazione all’eternità e all’immortalità, ma allo stesso tempo ogni amore dovrebbe contemplare all’interno della sua promessa il rischio della perdita e il terrore per la fine di quel legame.
“Speravo de morì prima”. Lo ammetto, da appassionato di sport l’ho pensato pure io davanti a quello striscione all’Olimpico nell’ultima partita di Francesco Totti con la Roma il 28 maggio 2017.
Me lo ha ripetuto ironicamente anche mia moglie lunedì sera dopo aver appreso da Twitter la notizia della separazione di Ilary Blasi e Totti.
Esattamente quarant’anni dopo la vittoria del Mondiale di Spagna ’82, l’impensabile è accaduto, di nuovo.
Per carità, niente di paragonabile ai drammatici eventi imprevisti con cui ci siamo dovuti confrontare negli ultimi anni, ma anche l’eco mediatico di questo episodio, con la corsa alla disperazione nei social, dice qualcosa di noi che non può essere solo ricondotto al gossip.
Una coppia simbolo del legame romantico e indissolubile, una famiglia celebre e famosa, ma allo stesso tempo percepita vicina alla gente, si separa.
L’ennesima scomparsa di un simbolo, al tempo di quella che il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han in La scomparsa dei riti, definisce la società caratterizzata dal crollo dei simboli. Simbolo, nella sua etimologia, è ciò che unisce, crea legame, diventa catalizzatore di proiezioni, fantasie, e aspettative delle persone, ma anche esorcismo per allontanare l’angoscia, il suo opposto, ovvero il diabolico.
E non c’è angoscia più grande e diabolica, oggi, se non quella di doverci confrontare con l’esperienza della perdita, del lutto e della separazione, noi votati alla ricerca dell’eternità e del “per sempre”. Il lutto non è solo la morte.
È lutto la perdita del lavoro, sentire di non essere all’altezza delle aspettative dei propri genitori o del proprio allenatore di pallavolo, le poche visualizzazioni di una storia su Instagram e, ovviamente la fine di una relazione sentimentale.
La negazione della fine.
Questa coppia, nata nel 2002, quando ancora il telefono lo usavamo per telefonare o mandare sms, e quindi ben prima di Facebook, Instagram e di nuove declinazioni della narrazione narcisistica del sé, ha incarnato il per sempre.
Del resto, Francesco Totti è stato il fedele Capitano che ha giocato solo nella Roma. Gli amori, tutti, portano in sé la naturale vocazione all’eternità e all’immortalità, ma allo stesso tempo ogni amore dovrebbe contemplare all’interno della sua promessa il rischio della perdita e il terrore per la fine di quel legame.
Negazione della fine
A partire dai miti, è Euripide attraverso la storia di Alcesti e Admeto nell’omonima tragedia, a ricordarci come sia impronunciabile la parola fine all’interno di un amore: impronunciabile perché psichicamente inaccettabile. Tuttavia, sappiamo che gli amori finiscono, e lo neghiamo. Finiscono, come finita è la nostra stessa esistenza, e lo neghiamo.
Francesco Totti e Ilary Blasi, negli anni sono riusciti a resistere alla tentazione di diventare un hashtag, e per questo percepiti come un modello familiare esemplare quasi ancor di più del brand Ferragnez, quindi amati proprio perché imperfettamente trasgressivi e impopolari, nel senso che prendono la dolorosa e delicata scelta di mettere fine a quella favola che il popolo pretendeva eterna.
Angoscia per una separazione condivisa a furor di popolo quando anno dopo anno si confermano i trend dell’Istat che ci dicono che i single hanno superato le coppie con figli.
Il popolo contemporaneo però pretende velocità di uscita dal lutto, non ci sa stare nella lacerazione della ferita, e cerca di dimenticare la separazione andando alla ricerca di una nuova coppia simbolica, in cui identificarsi, così da non soffrire la caduta del mito.
Noi che non contempliamo più la possibilità di riparare un oggetto quando si rompe, ma ricorriamo alla sostituzione maniacale.
Tutto l’opposto di ciò che invece necessita un efficace processo di elaborazione di un lutto, qualunque esso sia, e della sua ferita.
Prendersi cura del dolore lentamente.
I processi di cura non sono fatti di passi veloci e lineari, ma sono cammini lenti e fatto di spirali: di ritorni del dolore.
All’inizio della mia esperienza professionale, quasi vent’anni fa, i nostri pazienti ci dicevano “non importa quanto tempo ci vorrà per uscirne, e soprattutto non voglio prendere farmaci”. Oggi invece, le persone fin dalle prime sedute invocano la prescrizione miracolosa del farmaco, guaritore veloce della propria vulnerabilità.
Perché allora è così difficile smettere di soffrire per la fine di una relazione e separarci da quel dolore. Per Freud era un enigma irrisolvibile.
Non esistono ricette. Banale forse come affermazione, ma reale.
Serve riaccogliere il senso della mancanza e riuscire a starci senza evadere e cercando di non vivere la separazione con vergogna, colpevolizzazione o fallimento personale.
Serve innanzitutto un tempo lento per dare spazio al ricordo, alla memoria e alla legittimazione alla sofferenza.
Non esistono separazioni o lutti senza dolore. Solo così ci possiamo liberare dal peso ingombrante della perdita senza ricorrere a sostituzioni.
Serve infine non restare soli, ma giocarci nella relazione con l’Altro che, come ci ricorda il Nobel per la Fisica Giorgio Parisi nel libro In un volo di storni, è un sistema complesso, faticoso, ma meraviglioso.
Si può affrontare un dolore, così come un’esperienza di fragilità solo a condizione di non essere soli e riscoprendo quel lato umano, tremendamente umano, nascosto negli interstizi delle nostre relazioni.
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