Nella città di Trieste, più o meno a mezza strada tra il caffè Tommaseo e il San Marco, i due locali storici rimasti, è sopravvissuto per decenni il locale di Carlo e Mario Cerne. Dopo la sua scomparsa di quest’ultimo, l’auspicio è che la loro dedizione infinita, con quel patrimonio di volumi e polvere, non vada sacrificata
Nella città degli scrittori, più o meno a mezza strada tra il caffè Tommaseo e il San Marco, i due locali storici rimasti, è sopravvissuta per decenni la libreria antiquaria Umberto Saba. Sono l’ingresso e un’unica vetrata affacciati su via San Nicolò al civico 30, nel cuore preciso di Trieste. La boiserie e il parquet credo siano rimasti gli stessi di sempre e fino a qualche tempo fa potevi trovarvi Mario Cerne.
Era stato Saba in persona a prendersi il padre in bottega, l’orfano Carlo Cerne aveva diciassette anni e avrebbe trascorso una vita catalogando volumi sino a rilevare la proprietà. L’incarico sarebbe poi passato al figlio Mario entrato in quelle stanze nel 1967. Adesso anche Mario Cerne se n’è andato alla vigilia dei suoi ottantatré anni, più della metà trascorsi a presidiare un patrimonio di volumi, ricordi, testimonianze custoditi con la cura di chi si sentiva depositario di una memoria preziosa.
Ragionando sull’Europa
Lì davanti, negli anni, ci sono passato spesso, a volte gettando l’occhio alla vetrina, altre più rare entrando per qualche minuto. Ne avevo scritto tempo fa ragionando sull’Europa e su quelle mie radici di casa. Raccontavo come tra il recente tributo bronzeo a D’Annunzio seduto pensoso sulla panchina di piazza della Borsa, omaggio al centenario dell’impresa fiumana, e l’antica libreria corrano sì e no trecento metri in linea d’aria.
Il primo si è lasciato dietro una scia di gloria coltivata ostentando versi, oratoria, posture, per parte mia tradotta nell’obbligo ginnasiale a condividere le afflizioni del povero Sperelli. L’altro, il “poeta”, doveva incarnare l’opposto. Lo descrisse di pugno suo Saba rivolgendosi all’amico Scipio Slataper nel febbraio del 1911. In verità scegliendo la forma di un articolo titolato “Ai poeti resta da fare la poesia onesta”, dove l’aggettivo intendeva la deriva da scansare.
Saba aveva le sue idee piuttosto decise, contrapponeva i versi manzoniani, “mediocri e immortali”, a quelli “magnifici e precari” del Vate. Nel giudizio sul secondo calcava il contrasto oltre gli stili e la metrica, lo accostava all’insieme dei caratteri giudicandoli dalla sincerità nel coltivare le passioni. Da lì imbastiva una tesi di particolari: quando manchi della grazia, se non vuole imbrogliare, il poeta ha il dovere di fermarsi di qua dall’ispirazione riconoscendosi imperfetto, però falso mai.
Due mondi
A rifiutare quella via, proseguiva, forse avrebbe raggiunto la fama, ma a costo di tradire l’arte simulando sentimenti non suoi, “… e sempre sospirare, pregare a mani tese, purché il mio nome appaia nel Mercurio francese” (ma questo è lo spadaccino col naso importante e ci porta fuori strada). Fra i due mondi la distanza si faceva incolmabile perché innestata sui principi. La chiusa era un monito a cogliere il fine dello scrivere poesia sapendo quanto può inclinare al mondano oppure elevarsi, e qui la simbologia si complicava non poco perché, spiegava Saba, la vera poesia non può somigliare alla vita protestante, deve imitare l’ostia cattolica, riassumere anima e corpo.
Parole lontane in ogni senso, ma rilette e ripensate oggi fanno almeno sperare che dopo la dedizione infinita di Mario Cerne quel patrimonio di volumi, polvere e trascorsi non vada sacrificato. Insomma, sia detto con rispetto, tra la statua bronzea e la libreria antiquaria, sacrificare la seconda sarebbe un piccolo e odioso delitto. Un po’ come la vendetta postuma di Salieri su Mozart. O, absit iniuria verbis, come se toccasse ai cultori della Fiamma venirci a illustrare l’attualità di Gramsci. Perché al fondo anche alla politica spetterebbe un compito simile se non identico, pensare e agire coltivando una “politica onesta”. Il che non implica solo devozione al settimo comandamento, ma la sincerità di riconoscersi magari “imperfetti”, però “falsi” mai.
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