- La transizione energetica dell’industria automobilistica evidenzia gli enormi investimenti in capitale fisico che il green deal richiede e i rischi che comporta.
- Sono investimenti in larga parte finanziati con debito, privato e pubblico, che pone il problema della sua sostenibilità: affinché non solo la produzione, ma anche il debito sia sostenibile, è necessario che questi investimenti abbiano un rendimento adeguato.
- Ma l’opinione pubblica non sembra esserne consapevole, e i governi preparati, come dimostrano le reazioni all’impennata del prezzo del gas naturale.
Ultimamente la stampa finanziaria internazionale ha dedicato ampio spazio ai problemi e strategie dell’industria automobilistica di fronte alla transizione verde. Notizie che riguardano singole imprese ma che nel loro insieme offrono un quadro preciso e di interesse generale su incognite e rischi dei cambiamenti che attendono il sistema economico nel suo complesso e che avranno conseguenze durature.
Daimler (Mercedes) ha comprato il 33 per cento di Automotive Cells Co. (Acc), una joint venture tra Stellantis (nata dalla fusione tra Fca e Peugeot) e Total, per la costruzione di 8 Gigafactory (cioè fabbriche di batterie per vetture elettriche, EV) in Europa. Un progetto in parte finanziato dai governi francese e tedesco.
Volkswagen dichiara di voler investire 18 miliardi per costruire 6 Gigafactory, e insieme a Bmw ha un contratto da 14 miliardi con la svedese Northvolt per la fornitura di batterie. Tesla costruisce una propria Gigafactory in Germania. E per il mercato inglese c’è Britishvolt.
La Commissione europea stima in 60 miliardi gli investimenti nelle batterie in un solo anno (considerando l’intera la catena di produzione). Investimenti che hanno l’obiettivo di creare quasi dal nulla un’industria europea, in un mercato oggi dominato da Cina, Corea e Giappone, portando la sua quota di mercato mondiale in dieci anni dall’attuale 7 al 31 per cento, attraverso la costruzione di ben 27 Gigafactory.
Tutti sulle batterie
Si programmano massicci investimenti nelle batterie per EV anche negli Usa. Oltre al Tesla, Ford ha acquisito una partecipazione in Redwood Materials che vuole produrre batterie per 5 milioni di EV nel 2030. Volkswagen ha acquisito una partecipazione in QuantumScope, che studia batterie allo stato solido per evitare i rischi derivanti dall’infiammabilità della soluzione liquida delle batterie al litio (per questa ragione General Motors ha appena richiamato 150.000 vetture elettriche del modello Bolt). Anche Ford, Bmw e Toyota hanno dichiarato di investire nello sviluppo di batterie allo stato solido.
La società belga Umicore, maggiore produttrice europea di materiali per batterie elettriche, nonché la prima nel loro riciclo, ha lanciato l’allarme sui maggiori oneri che comporta il riciclo delle batterie al litio ad alto contenuto di ferro prodotte in Cina, e preferite dai produttori perché meno costose rispetto a quelle con cobalto e nickel. Minore il valore dei metalli recuperabili, maggiore il costo del riciclo, di cui nessuno però tiene conto.
Toyota e Bmw hanno sorpreso il mercato annunciando una strategia diversa dagli altri produttori: non solo EV (“full electric”), ma veicoli ibridi e materiali più “verdi”, con l’obiettivo di ridurre le emissioni nell’intero ciclo di vita dell’auto.
Senza emissioni?
Le vetture EV, infatti, non producono emissioni nocive solo dal momento in cui iniziano a circolare, ma la loro produzione, a cominciare da quella delle batterie, genera una quantità elevata di emissioni che vengono così bilanciate nel tempo una volta in circolazione.
Al contrario, l’approccio del ciclo di vita guarda alle emissioni complessive, dalla produzione delle componenti fino a quelle generate dalla circolazione: da qui la preferenza per le ibride, dotate di batterie molto più piccole, la cui produzione è meno inquinante.
La scarsità di circuiti integrati ha costretto l’industria automobilistica a ridurre la produzione con una perdita globale di ricavi per 120 miliardi. Tenuto anche conto della maggior ricorso all’elettronica delle EV, nonché della sempre maggiore importanza di radar e sensori nel disegno delle auto, anche in vista della guida assistita, diverse società da Tesla a Daimler, a Volkswagen, hanno annunciato di voler disegnare direttamente i propri circuiti integrati.
La maggiore domanda di elettricità rinnovabile che gli EV richiedono nella produzione come nella circolazione a sua volta impone massicci investimenti nelle reti e in nuove tecnologie per potenziare la capacità delle batterie per l’accumulo dell’elettricità.
Per esempio, in Germania è in costruzione una rete intelligente per portare l’eolico e il solare dal nord al sud dove c’è l’industria automobilistica, con un progetto da 95 miliardi a rendimento garantito dallo stato (ovvero dai cittadini che si troveranno un maggior costo in bolletta). O l’inglese Xlinks che investe 20 miliardi per portare direttamente il solare dal Marocco al Regno Unito senza interconnessioni.
Le strategie per la produzione di batterie sono solo un esempio di come le catene di produzione si accorceranno, avvicinandosi a casa, imponendo alle imprese di mantenere un livello elevato di scorte, non potendo più affidarsi esclusivamente alla pratica del just in time. Si riduce quindi la dipendenza dalle produzioni in Cina e nel resto dell’Asia che però, abbattendo i costi dei beni d’uso durevole, sono state la fonte principale della stabilità dei prezzi dell’ultimo ventennio. È pensabile pertanto che in futuro si aggiunga una componente strutturale di inflazione dal lato dell’offerta.
Chi paga il conto
La transizione energetica dell’industria automobilistica evidenzia gli enormi investimenti in capitale fisico che il green deal richiede e i rischi che comporta. Sono investimenti in larga parte finanziati con debito, privato e pubblico, che pone il problema della sua sostenibilità: affinché non solo la produzione, ma anche il debito sia sostenibile, è necessario che questi investimenti abbiano un rendimento adeguato, il che implica un aumento del prezzo relativo (rispetto al resto) dei beni finali e intermedi la cui produzione e utilizzo necessita di energia verde.
Questo evidenzia ancora una volta che la transizione verde costa, e molto. Ma l’opinione pubblica non sembra esserne consapevole, e i governi preparati, come dimostrano le reazioni all’impennata del prezzo del gas naturale.
A livello macroeconomico, la sostenibilità del debito pubblico dipenderà anche dalla capacità degli investimenti nella transizione verde di incrementare la produttività. Non è scontato, come i tanti esempi dall’industria automobilistica ci insegnano: società come Acc, Redwood Materials, Britishvolt o Northvolt sono delle start up che in poco tempo dovrebbero colmare un gap di anni rispetto ai concorrenti cinesi e coreani.
Le auto stanno diventando dei robot su quattro ruote ma nei circuiti integrati il gap europeo è ancora maggiore; si investe nella batteria al litio che non è certo sarà la tecnologia del futuro, al punto che si studia quella allo stato solido, ma società come QuantumSpace, anche se capitalizza 10 miliardi, è poco più di un laboratorio (che perde 600 milioni e fattura zero); né si tiene alcun conto del costo del futuro smaltimento di tutte le batterie che produrremo. Infine l’approccio del ciclo di vita dell’auto ci ricorda il rischio di una transizione verde fine a stessa, dimenticando che il vero obiettivo è la riduzione delle emissioni.
Quanto all’Italia: non pervenuta. Nonostante la rilevanza della nostra industria della componentistica.
Transizione verde e covid, insieme alla rivoluzione tecnologica, hanno innescato un profondo processo di cambiamento e rinnovamento della struttura dell’economia, rispetto a come l’abbiamo conosciuta. Ma all’Assemblea annuale di Confindustria, di fronte a 1.500 imprenditori, il presidente Carlo Bonomi ha parlato del governo, di blocco dei licenziamenti, ammortizzatori sociali, patto coi sindacati, fisco e non vax.
Di tutto quello che oggi interessa i mercati e la stampa finanziaria nel mondo, neanche un accenno. Come se non li riguardasse.
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