- La preferenza per gli investimenti ESG è motivata dal desiderio di sostenere con i propri risparmi aziende a cui sta a cuore l’ambiente; facilitare la transizione alla green economy, riducendo il costo del capitale delle imprese più attente alla sostenibilità.
- Anche ammesso che si risolvano tutti i problemi, concettuali e di calcolo, dei criteri ESG, quanto siamo veramente disposti a sacrificare il ritorno dei nostri risparmi per tutelare l’ambiente?
- L’anno scorso avreste guadagnato l’1,3 per cento nell’indice azionario delle aziende elettriche europee, tra gli investimenti più verdi; sareste rimasti soddisfatti sapendo che i titoli petroliferi sono saliti del 49 per cento?
La maggior parte dei nuovi flussi di investimento nel mondo ha puntato sull’economia verde: aziende la cui attività viene considerata coerente con la sostenibilità ambientale. A ogni società viene assegnato un rating ESG (Environment, Social, Governance) che esprime un giudizio sull’importanza attribuita dall’impresa a fattori ambientali (E nell’acronimo), sociali (S) e di governance societaria (G). I fattori ambientali hanno finito per prevalere nelle decisioni di investimento, data la crescente sensibilità di governi e opinione pubblica per i temi della green economy.
La preferenza per gli investimenti ESG è motivata dal desiderio di sostenere con i propri risparmi aziende a cui sta a cuore l’ambiente; facilitare la transizione alla green economy, riducendo il costo del capitale delle imprese più attente alla sostenibilità; e beneficiare di rendimenti più elevati perché si ritiene che le imprese green saranno premiate dai consumatori, avvantaggiate dalle politiche fiscali dei governi e dal minor costo dei capitali.
Nel caso di amministratori o professionisti che gestiscono gli investimenti di terzi (individui e istituzioni), a queste si aggiungono il timore della sanzione sociale se giudicati poco sensibili verso le tematiche ambientali, oltre alla possibilità di beneficiare della forte crescita di questo segmento di investimenti.
Motivazioni ineccepibili, ma che evadono l’unico quesito rilevante: gli investimenti ESG favoriscono la transizione ambientale? La risposta sembra scontata, ma non lo è per niente.
I criteri ambigui
Ci sono più di 160 società che emettono valutazioni sui criteri ESG, ma non esiste una metodologia uniforme, anche perché concettualmente irrealizzabile. È difficile arrivare a una definizione condivisa di rischio ambientale quando perfino fra i governi c’è disaccordo: basti pensare alle divergenze sulla decisione della Commissione europea di garantire il bollino verde al nucleare e al gas; o al dibattito negli Stati Uniti sull’opportunità di richiedere alle banche accantonamenti specifici per i rischi ambientali; o le differenze tra diversi paesi nei meccanismi di carbon allowance e carbon offset per ridurre le emissioni nocive entro determinati obiettivi.
Ogni analogia con il rating di merito creditizio è fuorviante: questo è basato prevalentemente su numeri certi, estrapolati dai bilanci societari, a loro volta compilati secondo criteri codificati e uniformi nel mondo; mentre la valutazione dei rischi ambientali è necessariamente soggettiva.
Ha fatto sensazione una recente inchiesta di Bloomberg sul calcolo dei rating ESG da parte di Msci, il maggiore fornitore di indici di mercato, utilizzato tra gli altri da Black Rock che con 9.500 miliardi di dollari in gestione è il primo asset manager al mondo. Un’analisi caso per caso, dimostra come il criterio di Msci non valuti l’impatto dell’attività delle imprese sull’ambiente, ma il rischio a cui le questioni ambientali espongono il loro conto economico.
Due esempi: JPMorgan ha il bollino verde anche se è il principale finanziatore di investimenti nell’energia fossile, ma si vedrebbe ridotto il rating se la regolamentazione imponesse accantonamenti per le imprese con rischi ambientali; e McDonald, che nella sua filiera produce più emissioni del Portogallo, non viene penalizzata per questo, ma ha beneficiato di un aumento del rating per aver allestito un sistema di raccolta differenziata nei propri ristoranti, anche se lo ha fatto perché costretta dalle normative di alcuni paesi. Sembrano bizzarre incongruenze, ma Msci non ha fatto altro che allinearsi all’evoluzione delle regole contabili e della regolamentazione bancaria, che richiedono di evidenziare e quantificare i rischi ambientali per la società, non il rischio che la società rappresenta per l’ambiente.
Come valutare?
L’approccio di Msci non è l’unico problema. La valutazione deve essere assoluta o relativa? È facile confrontare l’impatto ambientale di due case automobilistiche, ma come si fa con un cementificio e Microsoft? Se assoluta si investirebbe prevalentemente in società tecnologiche e utilities che vendono elettricità verde.
E deve essere totale o finale? Le società vendono energia verde prodotta con impianti solari hanno il massimo rating ESG; ma come valutare il fatto che i pannelli fotovoltaici sono prevalentemente fabbricati in Cina con energia generata al 70 per cento dal carbone? Sono problemi di metodo risolvibili in linea di principio, ma rimangono altri equivoci concettuali alla base dei criteri ESG.
Tutti gli attuali criteri attribuirebbero una valutazione più elevata a un fabbricante di yogurt che usa latte di mucche alimentate con mangimi naturali rispetto a un cementificio, una delle industrie più inquinanti, che installasse un sistema di carbon capture del gas utilizzato per la produzione. Ma quale delle due aziende apporta un miglioramento all’ambiente?
Se il vero obiettivo dell’investimento ESG è la riduzione delle emissioni, il cementificio dovrebbe essere premiato, perché non elimina le emissioni, ma le riduce con un guadagno netto per l’ambiente; il produttore di yogurt invece non lo danneggia, ma neanche lo migliora. Un esempio di come negli investimenti ESG i pregiudizi spesso prevalgono sulle considerazioni oggettive.
Il costo del capitale
Un altro equivoco riguarda l’impatto degli investimenti ESG sul costo del capitale delle imprese. Gli investimenti ESG dovrebbero ridurlo per le imprese maggiormente sensibili alle questioni ambientali, aumentando così la loro redditività e l’appetibilità per il mercato. Ma non è vero.
La transizione alla green economy prevede la sostituzione degli impianti inquinanti, il che comporta il costo dell’azzeramento del valore di quelli vecchi, oltre alla compressione dei margini derivanti dalla necessità adottare sistemi meno inquinanti, ma ancora per molto più costosi.
Il costo del capitale per chi riduce le emissioni aumenta, non diminuisce. Inoltre, per spostare le risorse dall’energia fossile alla verde, bisogna che il prezzo della fossile aumenti, senza che questo attragga nuovi investimenti, mentre le economie di scala nelle energie verdi ne abbattono il costo di produzione. Esattamente quello che sta succedendo. Ma la conseguenza sono extra profitti per le compagnie petrolifere, e margini in discesa per chi produce energia verde. Non credo sia quello che l’investitore ESG si aspetta.
La bolla finanziaria
Una conseguenza non voluta del successo degli investimenti ESG è una bolla finanziaria che rischia di far impallidire quella della tecnologia. Come mostrato nel grafico, l’indice azionario Global Green Energy da inizio 2019 è cresciuto fino a un massimo del 275 per cento rispetto all’86 per cento del Nasdaq e 21 dell’indice europeo; salvo poi crollare del 40 per cento.
Ma anche ammesso che si risolvano tutti i problemi, concettuali e di calcolo, dei criteri ESG, quanto siamo veramente disposti a sacrificare il ritorno dei nostri risparmi per tutelare l’ambiente?
L’anno scorso avreste guadagnato l’1,3 per cento nell’indice azionario delle aziende elettriche europee, tra gli investimenti più verdi; sareste rimasti soddisfatti sapendo che i titoli petroliferi sono saliti del 49 per cento?
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