- C’è un problema politico con l’Eni. L’azienda controllata dal ministero del Tesoro e guidata da Claudio Descalzi ancora non ha deciso se aprire un conto presso Gazprombank per continuare a comprare gas dalla Russia secondo le procedure indicate dal presidente Vladimir Putin.
- Prima Draghi ha criticato le scelte di politica energetica dal 2014 a oggi, che ci hanno reso troppo dipendenti dalla Russia, poi il Copasir (comitato parlamentare che vigila sui servizi) critica le aziende partecipate dallo stato sull’energia e chiede diversi criteri di scelta per i vertici.
- Per ora la guerra è un affare per l’Eni, ogni dollaro in più di prezzo del petrolio al barile sopra gli 80 dollari genera 140 milioni di euro di cassa aggiuntiva, con i prezzi attuali sono circa 3,8 miliardi grazie a Putin. Oggi i conti trimestrali.
C’è un problema politico con l’Eni. L’azienda controllata dal ministero del Tesoro e guidata da Claudio Descalzi ancora non ha deciso se aprire un conto presso Gazprombank per continuare a comprare gas dalla Russia secondo le procedure indicate dal presidente Vladimir Putin, che prevedono di usare la banca di Gazprom come una banca centrale parallela: si paga in euro, poi su un apposito conto parallelo avviene la conversione in rubli, una sequenza di operazioni che permette alla Russia di continuare a incassare valuta pregiata estera aggirando le sanzioni che hanno isolato parte del sistema del credito russo dalla finanza internazionale.
Prima l’indiscrezione di Bloomberg, poi un altro pezzo di Reuters: l’Eni non conferma, ma neanche smentisce. E tutto questo avviene dopo che la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha detto che il pagamento del gas secondo la modalità dettata da Putin «sarebbe una violazione delle sanzioni, quindi esporrebbe le aziende a un alto rischio». Ma è davvero così?
Nel caso dell’Eni a rischiare sembra più la credibilità europea dell’Italia come partner dell’alleanza atlantica che cera di fermare la Russia (anche) con strumenti di guerra economica. L’Eni, invece, può fare quello che vuole. Perché le sanzioni europee hanno un piccolo difetto: tocca alla Commissione renderle vincolanti, ma poi sono gli stati membri a doverle far rispettare.
Nelle “domande e risposte” della Commissione sulle sanzioni alla Russia si legge che: «Gli stati membri sono responsabili per l’implementazione delle sanzioni Ue così come di identificare le violazioni e imporre multe». La Commissione poi monitora gli stati membri nell’applicazione delle sanzioni.
Tradotto: se l’Eni paga in rubli nel modo che la Commissione europea considera illegittimo, tocca al governo italiano – che di Eni è il primo azionista – denunciare la violazione e poi sanzionare l’azienda (come? Non si sa). C’è un piccolo problema: i contratti dell’Eni sono secretati, non li conosce nessuno, sappiamo soltanto che non dovrebbero esserci scadenze prima di fine mese. Ma scelte di lungo periodo come l’acquisto di gas non vengono certo prese da un giorno per l’altro.
Il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, Copasir, che vigila sull’attività dei servizi segreti e le questioni di intelligence, ha appena presentato una Relazione sulle conseguenze del conflitto tra Russia e Ucraina nell’ambito della sicurezza energetica.
Nel testo, relatori il senatore Paolo Arrigoni (Lega) e la deputata Federica Dieni (Cinque stelle), si trova un sorprendente atto di accusa alle aziende partecipate dallo Stato nel settore dell’energia.
L’attacco all’Eni
A fronte della «ferma condanna dell’aggressione russa» da parte del governo italiano, “appaiono incoerenti, contraddittori e ambigui alcuni atteggiamenti tenuti da parte di aziende leader che non hanno operato una cesura immediata nei rapporti con le società russe, non recependo tra l’altro le indicazioni formulate dal governo”.
Non è certo un messaggio a Enel (che ormai è più focalizzata sulle rinnovabili) o a Snam (che il gas lo trasporta soltanto): il bersaglio è l’Eni, che risponde all’identikit di quelle «aziende di natura strategica che – proprio per la diretta partecipazione da parte dello Stato – sono vincolate a doveri più stringenti, soprattutto in una fase complessa come quella che si sta vivendo».
Il Copasir chiede poi che gli acquirenti di materie prime energetiche notifichino all’Autorità per l’energia (Arera) e ai ministeri competenti «i contratti d’acquisto con particolare riferimento alle informazioni relative ai prezzi concordati».
Perché finora questo non succede: non sappiamo esattamente quali costi sostengono le aziende che portano in Italia gas, ma vediamo solo a quale prezzo di mercato lo rivendono. C’è poi un messaggio sibillino che riguarda direttamente la poltrona degli amministratori delegati: la selezione dei vertici «nella tornata di nomine che interessano proprio alcune aziende a partecipazione statale di rilievo strategico» non bisogna affidarsi a società esterne di cacciatori di teste ma guardare soltanto alla sicurezza nazionale, «senza deroghe e cedimenti».
Poiché il vertice di Snam è stato appena rinnovato, con Stevano Venier indicato al posto dell’uscente Marco Alverà, a quale tornata di nomine e a quali aziende strategiche si riferisce il Copasir? Si può solo notare che Claudio Descalzi, nominato dal governo Renzi nel 2014, è stato confermato dall’esecutivo Conte II nel 2020 e scade nel 2023.
La scelta della dipendenza
All’inizio della crisi russa, in parlamento, il premier Mario Draghi aveva criticato tutte le scelte di politica energetica che dopo l’annessione della Crimea, sempre nel 2014, hanno reso l’Italia progressivamente più dipendente dalla Russia anche a parità di consumi: dopo che Putin aveva già attentato all’integrità territoriale dell’Ucraina, quindi, l’Italia si è consegnata al Cremlino: «Circa il 45 per cento del gas che importiamo proviene infatti dalla Russia, in aumento dal 27 per cento di dieci anni fa. Le vicende di questi giorni dimostrano l’imprudenza di non aver diversificato maggiormente le nostre fonti di energia e i nostri fornitori negli ultimi decenni».
In Italia, ha notato Draghi, «abbiamo ridotto la produzione di gas da 17 miliardi di metri cubi all’anno nel 2000 a circa 3 miliardi di metri cubi nel 2020 – a fronte di un consumo nazionale che è rimasto costante tra i 70 e i 90 miliardi circa di metri cubi».
Queste scelte, certo coperte a livello politico dai governi che si sono susseguiti (Renzi, Gentiloni, Conte I e Conte II) hanno sempre avuto l’Eni come protagonista, che ora prova a rimanere protagonista anche nella fase di distacco dalla Russia, sempre a fianco dell’esecutivo nella ricerca di fornitori alternativi, dall’Angola al Congo all’Algeria al Qatar. Ancora nel 2021, l’Eni ha comprato quasi un quinto del petrolio totale (18 per cento) dalla Russia, dopo l’invasione dell’Ucraina ha annunciato che non firmerà nuovi contratti.
La guerra si conferma però una iattura economica per l’Italia e le famiglie costrette a svenarsi per la bolletta, ma un ottimo affare per l’Eni. L’azienda aveva stimato un prezzo del barile di petrolio (Brent) per il 2022 a 80 dollari, ogni dollaro di aumento genera 140 milioni di euro di cash aggiuntivi per Eni. Ora il Brent vale 107 dollari al barile, un regalo da 3,8 miliardi di euro per Eni, gentile omaggio di Putin.
Oggi Eni presenterà i suoi conti trimestrali, che saranno sicuramente ottimi. Ma Descalzi, uomo simbolo della stagione della dipendenza energetica dalla Russia, può forse cominciare a prepararsi a una serena e ben remunerata pensione dal 2023, invece che inseguire il quarto mandato cui ambiva per entrare nella storia.
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