- Come sostiene Maso Notarianni nel suo editoriale del 25 aprile, l’indignazione di politici e giornalisti dopo le 130 vittime dell’ultimo naufragio trasudano ipocrisia.
- I numeri hanno un peso, ma non spiegano tutto. Per esempio non danno la misura di quanto l’impatto di rifugiati e richiedenti asilo ha corrotto la natura delle democrazie nei singoli paesi.
- Servono competenze, saperi, professionalità, reti associative e filtri culturali per costruire la convivenza, variabile attuale del “fare democrazia”. Più o meno la politica dovrebbe far questo. Aprire gli occhi e farli aprire.
Ha ragione Maso Notarianni nell’editoriale su questo giornale del 25 aprile, il giorno della Liberazione: l’indignazione di politici e giornalisti dopo le 130 vittime dell’ultimo naufragio trasudano ipocrisia. In quel tratto di mare da anni l’Europa si è giocata un pezzo dell’anima e non saranno frasi di circostanza a restituirgliela.
Quell’anima è rimasta seppellita dalla formula oscena sui “taxi del mare”; dall’attacco sfrontato alle Ong subentrate al disarmo unilaterale dell’andare a salvare chi annega; dal tributo riconoscente alla Guardia costiera libica, la stessa che riporta corpi provati dentro campi di detenzione dove rivivranno violenze, torture e stupri; dallo scambio in moneta con regimi dispotici a patto di tenersi in casa loro milioni di profughi. Eccola la nostra vergogna, ma solo muovendo dalla coscienza che questo è avvenuto possiamo immaginare di risalire un sentiero di dignità.
I numeri non bastano
I numeri hanno un peso, ma non spiegano tutto. Per esempio non danno la misura di quanto l’impatto di rifugiati e richiedenti asilo ha corrotto la natura delle democrazie nei singoli paesi, inasprito il giudizio sulle élite, scavato un fosso tra la sinistra e il suo insediamento. Per anni classi dirigenti bendate, dalla politica alla finanza all’economia, hanno sperato di traversare il temporale senza bagnarsi ignorando le diseguaglianze in casa e ritenendo la ricaduta del mondo interconnesso nulla più di un’opportunità.
La verità? Abbiamo faticato a cogliere la conseguenza pratica dei sentimenti a cominciare dalla paura per l’avvenire. Il vecchio internazionalismo, ancoraggio di una sinistra radicata in un corpo sociale, è evaporato lasciandosi dietro parecchi detriti e la famosa domanda di protezione sulla quale si sono tuffati altri.
Il conflitto tra globalisti e nativisti come li chiama Ivan Krastev, tra società aperte o chiuse, ha scavato la pietra e qualificato persone e comunità molto più delle distanze di censo. Potevi dirti e anche essere progressista, ma se il tuo discorso piegava sulla lettura più lontana dai bisogni di quelli in fondo alla fila non ti salvava l’etichetta di cosmopolita. Il ribaltamento delle categorie si è consumato così.
Quanto per un secolo e mezzo era servito a scuotere le coscienze degli ultimi in vista di una riscossa – riscossa, non vendetta – si è tradotto in difesa del poco minacciato da un nemico esterno, chiunque fosse: profugo, migrante, burocrate asservito a un’élite estranea.
Contro i diritti
In questa involuzione il lato peggiore è stato retrocedere i diritti umani a presidio di valori senza nesso coi conflitti esplosi. Di quei diritti nessuno, a parte la destra, ha negato la centralità, ma un numero via via ridotto ha vissuto la coerenza dell’impegno in loro difesa. Un capolavoro di ipocrisia, chiamiamolo col suo nome.
Con la coda di aver sottratto all’Europa un tratto della sua natura e il primato di un modello, non già e solo dell’accoglienza, ma dell’idea di mondo da avanzare in chiave di cultura oltre i nostri confini. Contro la tolleranza, da afflato conservatore è divenuto sintomo del consenso dominato dal rancore verso ogni invasione annunciata. La diseguaglianza da molla di rigetto per le cause all’origine si è mutata nel combustibile dell’insofferenza e talvolta dell’odio. L’onda si è alzata altissima e non ha fatto distinzioni tra paesi cattolici e ortodossi, tra chi aveva subito dittature odiose e chi no.
Distinzioni
Maurice Aymard racconta come per tre o quattro millenni «le migrazioni avevano fatto l’unità del Mediterraneo: oggi minacciano di disfarla». Proprio quella storia però dovrebbe indurre a cautela. La stessa distinzione tra rifugiati e migranti economici è bugiarda. Certo, servirebbe un gigantesco piano di aiuti per il continente sotto il nostro, un progetto almeno decennale in grado di stabilizzare quegli stati e cooperare con programmi di sviluppo a copertura di bisogni primari. È la sola strada perché le ricchezze di quella parte di mondo combinate alla bomba demografica trovino un’alternativa.
Ovvietà, ma averle taciute ha spinto il senso comune a giustificare decisioni distanti da quanto la politica avrebbe dovuto fare. Insomma ci sarebbero da salvare pace e convivenza sulle sponde del nostro mare. Non dico sia facile, tutt’altro. Penso solo si allontani il traguardo se tutto finisce col cancellare i volti della sofferenza dai telegiornali della sera perché anche da lì sono derivate norme ciniche verso minori, donne e uomini senza colpa se non la paura e una dose insopportabile di miseria.
Da lì soprattutto un disastro umanitario e la capitolazione dello spirito europeo. Come ha scritto Stefano Allievi, «non capisco la barca nel Mediterraneo se guardo solo la barca». Piaccia o meno è così. Cambiare paradigma implica mutare scala. Per esempio assumendo il mare come limes, confine, dell’Europa e non della penisola solo. Se si muove da qui chi può negare la ragionevolezza di un’accoglienza governata di due o trecentomila donne e uomini l’anno in un continente di quasi mezzo miliardo di persone?
Il dovere di salvarli
«Ma allora volete accogliere tutti?», il confronto non brilla di fantasia e questa è l’accusa frequente. Bisogna rispondere no, non è così. Non possiamo accoglierli tutti, ma ha ragione Roberto Saviano quando spiega perché abbiamo il dovere di salvarli tutti, o almeno provarci.
Il nodo è come l’Europa programma politiche di ingresso attrezzando con risorse l’Agenzia europea per la mobilità e stabilendo tabelle di accoglienza anche attraverso punteggi e criteri. Tutelando sempre chi fugge da guerre e persecuzioni. Dunque apertura di canali legali, quelli sospesi da un decennio, e contestualmente politiche di cooperazione per arginare le partenze, sapendo quanto il primo punto legittima l’altro.
L’alternativa è pagare, monetizzare il dolore caricando su altri, ieri i turchi, oggi i libici, domani chissà, il peso della tragedia. L’Europa della civiltà e dei diritti umani paga per tenerci lontani i disperati. Ma dopo? Si farà lo stesso con Marocco, Egitto, Libano, Tunisia?
Cosa fare
Tra i tanti, Sandro Veronesi ha colto il punto e con parole giuste, perché vere, ha smosso qualche coscienza intorbidita a non dare più la tragedia come scontata. L’altra via dell’inclusione è accelerare i tempi del riconoscimento, favorire congiungimenti familiari, operare nel locale per una integrazione linguistica, scolastica, approdare allo ius culturae aggirando l’ipocrisia di stato pronta a concedere la cittadinanza a un dodicenne, eroe del giorno per aver chiamato i carabinieri dal pullman sequestrato da un autista impazzito, ma ben asserragliata, l’ipocrisia intendo, nel fortilizio di una discriminazione verso altre migliaia di ragazzini meritevoli di diritti quanto Samir.
Bisognerebbe costruire un’informazione corretta rivolta ai cittadini europei sull’impatto del fenomeno evitando – accade in Ungheria, Polonia, e anche da noi – di saldare una percezione storta, come credere a un numero di irregolari moltiplicato per dieci rispetto a quelli a norma quando il rapporto è inverso. Poi certo, la follia è concentrare un numero ingestibile di profughi in contesti sociali provati sommando segregazione a emarginazione in una spirale perversa.
Su quel versante serve l’azione di amministrazioni coscienti del legame tra qualità della vita, del territorio, e potenzialità e limiti dell’integrazione. Servono competenze, saperi, professionalità, reti associative e filtri culturali per costruire la convivenza, variabile attuale del “fare democrazia”. Più o meno la politica dovrebbe far questo. Aprire gli occhi e farli aprire.
Non si può più tacere
Quanti turisti ogni giorno affollavano Ellis Island e sgranavano gli occhi dinanzi al racconto della quarantena all’arrivo di piroscafi stipati da disperati in cerca di una vita? La foto straziante di Alan Kurdi spiaggiato in Turchia ci dice una cosa peggiore, neanche il ricettacolo di angosce e speranze verso il domani abbiamo concesso a quella creatura siriana e a migliaia come lui. Ma il nostro mondo è quello di Alan, non dei bastimenti.
Basterebbe a farci vergognare almeno un po’ vero? Quando il fumo saliva dai forni c’era chi si lamentava dell’odore ripugnante, eppure continuava a tacere. Se l’Europa tace ancora, semplicemente condanna la sua anima. Tutto qui, ma in questa storia è tutto davvero.
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