- Anche in Italia, come in Francia, si potrebbe condizionare al possesso del “green pass” l’accesso a luoghi e servizi, ma nel rispetto di alcune condizioni. Innanzitutto, va dimostrato con trasparenza che la misura sia necessaria e proporzionata rispetto all’attuale situazione.
- Chi fosse in attesa di ricevere il vaccino subirebbe una penalizzazione rispetto ai vaccinati: i tamponi non sono gratuiti. Peraltro, con il “green pass” per l’accesso a locali e trasporti, si dovrebbe rendere la vaccinazione requisito necessario per chi lavora ove il pass è richiesto per l’entrata.
- Con l’ampliamento dell’uso del “green pass” si estenderebbe la platea dei verificatori e la circolazione dei dati contenuti nel pass. Andrebbe accertato che i controlli per l’accesso siano compiuti in modo idoneo, per rendere effettiva la funzione del certificato.
Si può imporre il “green pass” per accedere a luoghi pubblici – bar, ristoranti, teatri ecc. – o a mezzi di trasporto, alla stregua di quanto sancito dal presidente francese, Emanuell Macron? Serve sgombrare il campo da dubbi. Così come può essere prevista l’obbligatorietà del vaccino, a maggior ragione può essere disposto l’uso della certificazione Covid-19 per l’acceso a luoghi e servizi. La Costituzione è chiara: l’art. 32 definisce la salute come «fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività». In altri termini, la salute è un bene non solo personale, ma sociale: ciascuno può valutare cos’è meglio per sé, ma non è libero di nuocere alla salute altrui o alla salute pubblica. Ma come l’obbligo vaccinale può essere sancito nell’osservanza di alcuni vincoli fissati dalla Corte Costituzionale, così anche l’obbligo di “green pass” per lo svolgimento di una serie di attività quotidiane deve rispettare taluni paletti, essendo di fatto un limite alle libertà personali.
Le condizioni per il “green pass”
Innanzitutto, ogni restrizione, oltre che proporzionata alla gravità della situazione su cui interviene, dev’essere adeguata al fine cui è indirizzata e la meno penalizzante possibile. Non basta che essa sia utile: dev’essere anche necessaria. Per rispettare queste condizioni, innanzitutto vanno forniti in piena trasparenza i dati circa l’efficacia dei vaccini nell’impedire la trasmissione del virus anche nella variante Delta, che oggi preoccupa molto: di fatto, pare che anche i vaccinati possano essere portatori della variante. Inoltre, va valutato se davvero serva “incentivare” la vaccinazione tramite pass, cioè se i dati oggi dimostrino una flessione delle somministrazioni tale da rendere necessarie le limitazioni derivanti dalle certificazioni Covid-19, per spingere a vaccinarsi.
In altri termini, occorre verificare quanti, tra i molti milioni di italiani non ancora vaccinati, sono ancora in lista di attesa, quindi non hanno alcuna necessità di essere “incentivati”; e quanti, invece, sono ancora incerti o no-vax. Peraltro, al momento, con le attuali adesioni, nelle diverse regioni vengono somministrate circa il 90 per cento delle dosi. Ciò attesta, da un lato, che i vaccini consegnati non restano inutilizzati a causa dei renitenti; dall’altro lato, che un aumento rilevante di adesioni non sarebbe coperto dai vaccini attualmente disponibili.
Inoltre, qualora si stabilisse che l’accesso a luoghi e la fruizione di servizi sia subordinato al possesso del certificato Covid-19 a partire da una certa data, entro quella data la somministrazione del vaccino dovrebbe essere garantita a chiunque ne abbia diritto. Infatti, è vero che il “green pass” viene rilasciato anche a chi ha un tampone negativo, ma il tampone non è gratuito. Chi fosse in lista di attesa, alla data di introduzione del pass, subirebbe una penalizzazione rispetto a quelli già vaccinati, e non per propria colpa. Stessa cosa per chi non potesse vaccinarsi per motivi medici. Per eliminare tale penalizzazione, si dovrebbero rendere gratuiti i tamponi per questi soggetti. Ma resterebbero problemi ulteriori.
Rischi di discriminazione
L’onerosità dei costi del tampone, come strumento alternativo al vaccino, rischia di diventare un nodo cruciale perché si collega a eventuali effetti discriminatori del pass. Come affermato anche dal Garante Privacy, questi ultimi vanno assolutamente evitati soprattutto nell’esercizio di diritti fondamentali. Si pensi, ad esempio, all’accesso ai luoghi di culto; o anche solo al fatto di dover sostenere il costo di qualche decina di euro per svolgere attività quotidiane, come prendere un caffè al bar.
Appare palese che, in questo modo, gli oneri economici da sopportare in mancanza di vaccinazione renderebbero quest’ultima inevitabile: vi sarebbe cioè una sorta di obbligo vaccinale introdotto in via surrettizia. Peraltro, ai sensi del Regolamento europeo sul certificato verde digitale Covid-19 (2021/953), «è necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate (…) perché non hanno ancora avuto l'opportunità di essere vaccinate o hanno scelto di non vaccinarsi». In altri termini, dal “green pass” non possono farsi discendere conseguenze negative per i non vaccinati.
Il Regolamento lascia liberi gli Stati di definire le proprie politiche sanitarie, ma il principio di “non discriminazione” resta fermo, nei termini sopra riportati, e la onerosità dei tamponi rappresenta una criticità. Forse anche per questo in Italia si sta valutando un uso del “green pass” più limitato rispetto alla Francia.
Criticità ulteriori
Con l’imposizione del “green pass” per l’accesso a locali e trasporti, si dovrebbe rendere la vaccinazione un requisito necessario allo svolgimento della mansione per chi lavora a contatto con il pubblico cui si richiede il pass per l’entrata. Questione di coerenza, normativa e non, per garantire la piena salubrità dei luoghi. Ma il datore di lavoro non potrebbe interrogare i propri dipendenti circa l’assolvimento dell’obbligo vaccinale. Come affermato dal Garante Privacy - in conformità a norme dell’ordinamento, tra cui quelle del Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali (GDPR) - non è consentito al datore di lavoro raccogliere «informazioni in merito a tutti gli aspetti relativi alla vaccinazione, ivi compresa l’intenzione o meno della lavoratrice e del lavoratore di aderire alla campagna, alla avvenuta somministrazione (o meno) del vaccino e ad altri dati relativi alle condizioni di salute del lavoratore».
Pertanto, bisognerebbe emanare una norma analoga a quella prevista per gli operatori sanitari. Norma che tuttavia – va rammentato – per questi ultimi stenta a essere applicata, date le difficoltà operative che presenta, nonché le azioni giudiziarie dei sanitari coinvolti.
Inoltre, servirebbe ampliare la platea dei verificatori, cioè dei soggetti preposti al controllo delle certificazioni verdi nei luoghi ove l’accesso è condizionato al possesso del pass: oltre a forze dell’ordine e pubblici ufficiali nell’esercizio delle proprie funzioni, addetti al controllo della sicurezza di eventi, spettacoli aperti al pubblico e altro, personale dei mezzi di trasporto, titolari delle strutture ricettive e dei pubblici esercizi ecc.. Un’estensione notevole dei verificatori, da un lato, amplificherebbe la circolazione dei dati incorporati nel “green pass” tra un numero molto vasto di soggetti; dall’altro lato, porrebbe il problema di “controllare i controllori”. Occorrerebbe, infatti, accertare in modo più ampio che le certificazioni siano davvero sottoposte a verifica da parte dei tanti soggetti preposti: una norma sprovvista di adeguati accertamenti circa la sua applicazione, ai fini dell’irrogazione delle relative sanzioni, rischia di restare priva di effettività.
Insomma, si può adottare pressoché qualunque soluzione per contrastare il virus, “green pass” incluso, nel rispetto delle condizioni previste dall’ordinamento. L’Italia è in grado di garantirle?
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