- Il Pd si è caricato il peso di misure di austerità, di riforme impopolari, della tenuta della barra atlantica nelle crisi, della pandemia del governo Draghi.
- In cambio i suoi elettori hanno avuto pochino, se non in quanto cittadini italiani, mentre i vertici del partito e la sua galassia di tecnici di riferimento ha presidiato in gangli del potere.
- Il Pd deve ancora annunciare tutte le candidature e il programma, è al bivio tra presentarsi agli elettori come forza tecnocratica e impolitica, oppure ricordarsi che la scelta di tenere nel nome la parola “partito” indica di rappresentare una parte contro il “tutto” che i populisti si arrogano la pretesa di incarnare. Quale parte?
Per una volta tocca dare ragione a Ernesto Galli della Loggia, quando, sul Corriere della Sera, scrive che il Pd è diventato il partito dell’establishment, o meglio, delle istituzioni. Governa, per senso di responsabilità, dicono i suoi vertici, dal 2011: si è caricato il peso di misure di austerità, di riforme impopolari, della tenuta della barra atlantica nelle crisi, della pandemia del governo Draghi.
In cambio i suoi elettori hanno avuto pochino, se non in quanto cittadini italiani, mentre i vertici del partito e la sua galassia di tecnici di riferimento ha presidiato in gangli del potere.
Questa mutazione è diventata identità, come dimostrano le prime scelte delle candidature: il cartello di sinistra presenta un ex sindacalista di braccianti (Soumahoro) e l’attivista simbolo dei diritti dei più fragili (Cucchi), il Pd un ex funzionario del Fondo monetario internazionale specializzato in tagli della spesa (Cottarelli). Più chiara di così la sintesi non poteva essere.
Tutto quello che il Pd tocca viene istituzionalizzato e ogni entusiasmo si spegne all’istante: l’agitatore delle piazze delle Sardine, Mattia Santori, è un tranquillo consigliere comunale che coltiva marjuana in terrazzo. Elly Schlein che prometteva la rivoluzione in stile Obama si avvia verso un seggio blindato, come generazioni di contestatori prima di lei (Debora Serracchiani, oggi capogruppo Pd, aveva esordito contestando i vertici del partito nel 2009 all’assemblea nazionale).
Quando pensa a chi portare in parlamento del sindacato, il segretario Enrico Letta punta sulla ipermoderata Annamaria Furlan, non certo sui sindacalisti della logistica picchiati, indagati e soli a Piacenza.
Tanti discorsi sui giovani e sull’ambiente, ma per ora è Luigi Di Maio con la sua lista fantasma ad aver coinvolto un’esponente dei Fridays for future (Ferderica Gasbarro), che il Pd non può certo permettersi dopo aver firmato un effimero patto politico con Azione che indicava una linea più compatibile con le grandi imprese energetiche che con le piazze degli scioperi climatici.
Il Pd deve ancora annunciare tutte le candidature e il programma, è al bivio tra presentarsi agli elettori come forza tecnocratica e impolitica, oppure ricordarsi che la scelta di tenere nel nome la parola “partito” indica di rappresentare una parte contro il “tutto” che i populisti si arrogano la pretesa di incarnare. Quale parte?
La scelta di essere “il partito delle istituzioni” è stata una delle cause della crisi del governo Draghi: poiché il Pd non aveva una agenda diversa dalla “agenda Draghi”, al presidente del Consiglio non restava che arginare le richieste della destra, invece che cercare compromessi tra spinte opposte.
Perché di spinte da sinistra, semplicemente, non ce n’erano (con la tardiva e pasticciata eccezione del Movimento Cinque stelle).
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