- La crisi ucraina, al punto in cui è giunta, non è quindi più leggibile come una contrapposizione tra blocchi di stati con mire e interessi inconciliabili, quasi si trattasse di una ripresa fuori tempo massimo di uno schema da Guerra fredda.
- Quella cui stiamo assistendo è in realtà una radicale opposizione tra le norme e le prassi che regolano i rapporti sovranazionali e il tentativo eversivo di rompere irreparabilmente con queste.
- Le speranze di pace sono riposte, oggi come in passato, nella preservazione di questo sistema di norme e prassi di mutuo riconoscimento, un ordine che non ammette né eccezione né eversione. Se non sarà Putin a rendersene conto, saranno altri a farlo al posto suo.
L’invasione dell’Ucraina è uno strappo che non solo riscrive la storia, come si dice da più parti, ma riscrive il diritto e per molti versi, questa è una riscrittura più pesante e carica di implicazioni che davvero mancano di precedenti. Non ci riferiamo tanto allo sfregio che imprime all’articolo 2.4 della Carta delle Nazioni unite, per cui ai membri dell’Onu è fatto obbligo di astenersi “dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato”. Ci riferiamo piuttosto al colpo inferto al fondamento stesso di una condizione di pace nel pluriverso delle relazioni tra stati: un fondamento che è innanzitutto un tacito senso di reverenza nei confronti di qualcosa che per sua natura non si lascia facilmente catturare in norme scritte.
In effetti, il diritto internazionale è fatto in primo luogo di consuetudini e prassi e di rispetto condiviso per queste. Il lento lavorio di azioni ripetute, riconosciute come buone e adottate quindi come guida per le azioni future.
Non c’è diritto fuori da questa dinamica: il paziente e fragile accumulo di criteri comprovati dalla pratica e sostenuti dal riconoscimento diffuso. Quando arriva la parola, che mette il diritto per iscritto e lo rende “legge”, il diritto in verità è già lì, pronto per essere detto.
Ma in un quadro così sensibile alle pur minime oscillazioni, una scossa tellurica come quella registrata in questi giorni ha una forza incalcolabile e gravida di minacce, là dove rischia di introdurre nuove prassi, che potrebbero un giorno attestarsi come buone ed essere oggetto di riconoscimento diffuso.
Cosa è cambiato
È questa la ragione di fondo per cui l’invasione russa ha creato sconcerto generale e si è trovata del tutto priva della capacità di raccogliere consensi, persino tra i più auto interessati e cinici: l’azione sconsiderata di Vladimir Putin non solo ha violato palesemente il diritto internazionale (ma in tal senso si iscrive in una casistica abbondante, tutt’altro che estranea al fronte opposto), ma, se non trovasse risposta efficace e concorde, potrebbe farsi essa stessa fonte di nuove prassi, che un giorno potrebbero essere considerate diritto.
La crisi ucraina, al punto in cui è giunta, non è quindi più leggibile – ammesso lo fosse in precedenza – come una contrapposizione tra blocchi di stati con mire e interessi inconciliabili, quasi si trattasse di una ripresa fuori tempo massimo di uno schema da Guerra fredda che si assume in mancanza di altre, migliori, chiavi interpretative.
Quella cui stiamo assistendo è in realtà una radicale opposizione tra le norme e le prassi che regolano i rapporti sovranazionali e il tentativo eversivo di rompere irreparabilmente con queste.
Non si tratta dunque di marcare una linea tra buoni (stati democratici) e cattivi (stati illiberali), che peraltro non spiegherebbe l’atteggiamento tra l’infastidito e il prudente di paesi come la Turchia e la Cina.
Una fuga troppo in avanti
Si tratta piuttosto di inquadrare l’azzardo di Putin come una fuga in avanti – troppo in avanti – su cui nessuno degli attori coinvolti (con le sole eccezioni di Bielorussia e Iran) pare disposto a transigere.
Come se ne esce, allora? Le previsioni in ambito sovranazionale sono quanto di più azzardato, ma possiamo senz’altro dire che, come si è arrivati a questo punto in seguito a uno strappo che non ha precedenti nel diritto internazionale recente, se ne uscirà solo ricucendo tale strappo in una modalità che si dimostri capace di fare da precedente, una soluzione cioè tale da assorbire e svuotare la rischiosissima forza di precedente che al momento ha l’attacco russo.
In questo senso, non crediamo che il ritorno al tavolo delle trattative da parte di Putin sia una mera mossa dilatoria o un goffo tentativo ex post di riconoscere nell’assediato un interlocutore. Ci pare piuttosto il tentativo – in ritardo ma non fuori tempo massimo, ambiguo ma non senza significato – di rientrare nell’alveo delle consuetudini che regolano questo tipo di situazioni di crisi (specie le più acute).
Consuetudini largamente attestate e accettate in ogni consesso internazionale e che non possono essere disattese senza un costo (che va ben al di là delle pur pesanti sanzioni economiche).
Le speranze di pace – una pace che non si esaurisca in puri auspici – sono riposte, oggi come in passato, nella preservazione di questo sistema di norme e prassi di mutuo riconoscimento, un ordine che non ammette né eccezione né eversione. Se non sarà Putin a rendersene conto, saranno altri a farlo al posto suo.
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