- La natura dimostrativa della disobbedienza climatica è stata criticata perché inefficace e puramente spettacolare
- Ma l’alternativa è la radicalizzazione dell’attivismo verso forme di sabotaggio che avrebbero una ricezione ancora più negativa
- La possibilità di conversione della maggioranza alla causa climatica può passare solo dalla nonviolenza
Dalle colonne di Domani Fabrizio Sinisi ha espresso forti dubbi sulla campagna dell’attivismo climatico di Ultima generazione, che avrebbe già sorpassato la capacità di sorprendere per diventare argomento giornalistico e social della durata di poche ore.
È vero che la logica della provocazione che cerca di creare dibattito rischia di generare solo un’ondata di entusiasmo o indignazione.
E rischia di affievolirsi o di dover esagerare realmente, diventando macchiettistica o qualcos’altro. È questo qualcos’altro che il pubblico italiano non ha ancora percepito.
Di fronte allo stallo dei Fridays for future e all’insuccesso della nonviolenza, Andreas Malm ha teorizzato la necessità di una lotta anche violenta tramite sabotaggi mirati: contro le produzioni petrolifere e i consumi di lusso e non necessari (anche i SUV).
Non si tratta di un appello alla violenza, né tantomeno di una glorificazione di atti di microterrorismo. Secondo Malm, invece, ogni movimento sociale ha avuto una doppia anima, mainstream e radicale, che l’attivismo climatico recente ha dimenticato appiattendosi sulla parte docile, che appare radicale solo alla torpida cattiva coscienza della politica italiana.
Ma io credo che gli attivisti climatici facciano bene a mantenere una strategia simbolica e nonviolenta. Non soltanto per un rifiuto di principio della violenza (contro le cose, non solo contro le persone), ma anche per ragioni strategiche.
Il sabotaggio è efficace quando impone dei costi non più sostenibili a chi lo subisce. Ma se le cose da sabotare sono così diffuse e cruciali per la vita di tutti, la risposta della maggioranza, con repressione e negazione del problema climatico, sarebbe ancora peggiore.
Meglio per l’attivismo climatico è continuare a giocare la carta della disobbedienza civile il cui vantaggio, rispetto al sabotaggio, è di mantenersi su un piano moralmente ineccepibile.
Solo mostrandosi dediti a una causa che è nell’interesse di tutti, e rischiando di diventare vittime di sentenze sproporzionate, può passare l’idea che ognuno di noi, in qualche modo, debba cambiare qualcosa.
È invece utile diversificare le iniziative, oltre a quelle comunicative. Marco Perduca sempre su Domani suggerisce ai militanti di denunciare ai tribunali azioni dannose per il clima da parte di privati o istituzioni. L’appiglio giuridico è fornito dalla recente riforma dell’art. 9, comma 3 della Costituzione (La Repubblica «tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni»).
Infine, una proposta discorsiva.
Basta chiamare “ragazzi” e “giovani” gli attivisti climatici. Non fa che desensibilizzare la maggioranza, come se la questione fosse un lamento minoritario e infantile destinato a svanire con la maggiore età. Mentre il rischio è di svanire tutti quanti.
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