Per Israele il trauma del 7 ottobre è molto più forte di quanto percepiamo in Europa. A livello internazionale il discorso sul “diritto di Israele di difendersi” trova il suo limite nella magnitudine della reazione. Ma dentro Israele la paura e la rabbia sono talmente forti da far ignorare ogni appello. Il paese è economicamente fermo e sconvolto: a nord la paura ha fatto spostare dalle zone limitrofe con la frontiera del Libano migliaia di cittadini. A sud l’esercito ha sgombrato tutti e resta solo un’aria di desolazione e morte. Israele si stringe su sé stessa con furia e dolore e non ascolta nessuno: la priorità adesso è difendersi e sopravvivere.

Ostaggi

Si possono sacrificare gli ostaggi? Se lo domandano in tanti. Le manifestazioni israeliane per la loro liberazione sono numerose e molto frequentate, l’atteggiamento delle autorità è ambiguo ma la trattativa ha dato il suo primo esito. Quanti ostaggi però sono ancora vivi? Molti rapiti poi sono nelle mani della jihad islamica e di altri gruppuscoli che nemmeno Hamas controlla.

L’attacco del 7 ottobre è stato un vaso di pandora da cui sono usciti i mostri peggiori che non possono essere rimessi dentro.

Tradimento

Lo Shin Bet e l’esercito israeliano si sentono traditi da Hamas e dal suo capo di Gaza, Yahia Sinwar. Aveva detto che volevano solo più permessi per lavorare in Israele; che la loro scelta era per lo sviluppo. Si negoziava in silenzio dal 2017, addormentando le difese di Israele.

Invece stavano preparando l’attacco trasformando tutto in armi: aiuti umanitari, soldi del Qatar, risorse economiche. Il tradimento più atroce è stato quello perpetrato contro chi viveva nei kibbutz assaltati: gente di Peace now, israeliani di sinistra, quasi tutti favorevoli ai due stati come a Kfar Aza o a Beeri. I palestinesi che ci lavoravano hanno rivelato ad Hamas le mappe dei rifugi e tutto il necessario per l’attacco. Sono andati a colpo sicuro. Si potrà mai ricostruire la fiducia? Erano poveri kibbutz rurali non come i ricchi coloni della destra, suprematisti e violenti, sussidiati dallo stato e chiusi in fortini inespugnabili dove certo non entra nessun palestinese.

I due stati

Oggi tutti in Israele si chiedono come ci si potrà mai più fidare di uno stato palestinese se un “quasi stato” tipo Gaza si è rivelato così micidiale. La soluzione dei due stati è moribonda non solo a causa degli insediamenti che hanno spezzettato geograficamente la Cisgiordania, dando il colpo di grazia agli accordi del 1994, ma anche perché ormai nessuno in Israele ci crede più, nemmeno i progressisti.

Il tradimento subìto dai kibbutzim del sud peserà per sempre. Molti di coloro che si sentivano vicini ai palestinesi dicono (con vergogna) che il colpo del 7 ottobre è stato talmente forte da non far sentire empatia per ciò che accade a Gaza. Le illusioni di convivenza sono svanite, inghiottite dal sangue di quei bambini uccisi e nell’orrore di quelle violenze le cui immagini girano di cellulare in cellulare.

Gli arabi

Le stesse immagini circolano anche nei paesi arabi ma con tutt’altro scopo: il godimento della vendetta. Tutti condannano a gran voce le operazioni militari israeliane in corso a Gaza e chiedono che la Striscia sia unita alla West Bank sotto un governo palestinese unitario.

Chiedono anche che l’Onu adotti una risoluzione vincolante per dare un stato ai palestinesi. Nessuno però si sdegna per il sangue innocente versato né condanna le azioni di Hamas che viene anzi lodata da alcuni e considerata – un po’ da tutti – alla stregua di un movimento di resistenza patriottico. La narrazione anticoloniale sta funzionando. La lega araba accusa Israele di compiere atrocità: discorsi ipocriti sulla bocca di leader che hanno massacrato i propri popoli.

Senza un chiarimento a tal riguardo sarà difficile trovare un accordo con l’occidente. L’accusa di doppiopesismo che gli viene rivolta vale forse per la politica estera ma certamente non per come ognuno tratta i propri popoli: è questo il solo vero scriminante per definire una democrazia.

I palestinesi

La guerra di Gaza ha fatto ritrovare l’unità perduta. Nella riunione delle varie fazioni palestinesi a Ramallah ci si è accordati per un “governo nazionale” in cui siano rappresentate tutte le componenti (le varie correnti di al Fatah ma anche Hamas), mediante la nomina di ministri indipendenti (leggi: tecnici).

Il dilemma per l’Anp è riprendere il controllo di Gaza (perso nel 2007 in favore di Hamas) senza dare l’impressione di «giungere sopra un tank israeliano». La domanda è: come coinvolgere Hamas ed escluderla allo stesso tempo, con il suo consenso? La soluzione unitaria necessita che tutti siano coinvolti ma la competizione anche solo in Cisgiordania resta forte: almeno tre fazioni al Fatah (da Abu Mazen a Marwan Barghouti), la società civile, i Lion’s Den e altri raggruppamenti militarizzati. L’unità serve a reagire ad Israele ma anche per controllarsi a vicenda.

Hamas

La divaricazione tra le varie sensibilità è ormai evidente. Tutti considerano l’ala militare di Gaza – che ha voluto il 7 ottobre – ormai finita. Tuttavia la sua distruzione (inclusa la morte di Yahia Sinwar) non comporterà la fine del movimento politico-religioso. Gli israeliani lo reclamano a gran voce per dare un senso all’attuale guerra ma sanno che non è possibile.

La Turchia è pronta a sostituirsi al Qatar offrendo al movimento copertura politica ma al prezzo di una totale obbedienza: Erdogan è furioso per non essere stato informato (e probabilmente avrebbe frenato). Il controllo sui movimenti di estrazione “fratelli musulmani” è considerato vitale dal leader turco: un dossier sul quale non permette deviazioni nemmeno all’alleato Qatar. Dopo la guerra vedremo Hamas cambiare pelle come già accadde all’Olp di Yasser Arafat?

Cessate il fuoco

Emmanuel Macron lo ha richiesto durante al conferenza umanitaria per Gaza del 9 novembre a Parigi, primo leader occidentale a reclamarlo. Per ora gli altri si limitano a domandare tregue o pause umanitarie ma Israele non si lascia convincere, irritando anche il proprio miglior alleato, gli Stati Uniti. Per tentare di mantenersi Netanyahu ha bisogno che la guerra continui e – forse – che degeneri in conflitto regionale, trascinando nel gorgo anche Hezbollah e Iran.

In Israele si teme che sia più facile distruggere Hamas che liberarsi del premier. Malgrado le parole dure del presidente Raisi, anche Teheran vuole il cessate il fuoco per non essere costretta ad entrare in guerra. Dal canto suo il Qatar tenta di frenare l’escalation al fine di non restare isolato come l’unico broker di Hamas: una posizione scomoda che alla fine non paga.

Forza di stabilizzazione

L’ha proposta per primo Erdogan, idealmente formata da militari di paesi musulmani. I sauditi sono d’accordo. Sarebbe una sconfitta doppia per Israele: non solo non avere prevenuto il massacro ma ottenere come risultato la presenza di militari di paesi “non amici”. Considerando le sue buone relazioni con New York, Erdogan accetterebbe anche che tale forza fosse posta sotto bandiera Onu, un altro schiaffo ad Israele.

Messa così, prefigurerebbe a termine una vera e propria indipendenza almeno per Gaza: l’accesso alla Striscia sarebbe consentito via mare e via aerea, ciò che gli israeliani non hanno mai accettato. C’è da scommettere che per il governo attuale una forza di questo tipo non sarebbe plausibile nemmeno se composta da paesi occidentali.

Polarizzazione

Sara molto difficile trovare una soluzione, visto che i due campi sono estremamente polarizzati. L’occidente ha sbagliato a non sostenere le forze mediane quando era in tempo. In Israele la sinistra (fondatrice dello stato) è morta e poi anche il centro; tra i palestinesi l’Anp è stata umiliata e ridotta ad un simulacro.

Trattare ora, tra l’estrema destra israeliana da una parte e Hamas dall’altra (se non di peggio), sarà un’impresa ardua. Una lezione per il futuro: le crisi vanno risolte e non lasciate marcire nella speranza che si addormentino.

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