Mio padre faceva il tranviere e tutte le sere quando tornava a casa dal lavoro, fischiettava. Ma quella sera no. Si era portato addosso l’odore del sangue, i calcinacci, l’ombra della morte». Venerdì 2 agosto saranno 44 anni da quella infuocata mattina d’estate che a Bologna inghiottì fra le macerie 85 vite (oltre 200 i feriti).

Fra le molte testimonianze che mi sono capitate per le mani, nel mio lavoro di storica, sono i racconti di chi ricorda i bambini giocare spensierati, fra i sedili di una sala d’aspetto alla stazione, in un giorno qualunque, ad avermi sempre colpito molto.

Sarà che con la maternità il mio sguardo si è addolcito, ma credo sia anche l’idea che con la morte di quei piccoli che aspettavano solo di partire per le vacanze, la nostra sgangherata (seppure forte) democrazia abbia perso per sempre qualcosa.

La Repubblica visse la sua notte più profonda, si disse, ma oggi pochi sembrano dar peso alle responsabilità (morali, non solo giuridiche) di quel massacro vigliacco ideato, messo a punto e portato a compimento con criminale lucidità dai NAR: i campioni dello stragismo neofascista fondati da Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, che nei loro incubi eversivi avevano ben poco di rivoluzionario.

Depistaggi contro la verità

Di certo, se non altro per un moto di coscienza, c’è ancora da chiedersi cosa sappiamo, cosa non sappiamo e cosa non sapremo mai delle stragi neofasciste che hanno insanguinato l’Italia dal 12 dicembre 1969 di Piazza Fontana, fino alla bomba del 2 agosto 1980. Depistaggi, meccanismi di occultamento (che mescolano il falso al vero), distruzione di prove, silenzi di Stato e inchieste deviate hanno impedito di arrivare alla verità.

Una cosa però è certa: il paese dovrebbe rispetto per quel «tragico rosario di traumi», come l’ha definito Benedetta Tobagi, che costò la vita a oltre 300 persone per colpa della strategia della tensione. E mostrare una volta per tutte (questo sì che sarebbe doveroso) una certa riconoscenza a quei famigliari delle vittime, troppo spesso dimenticati nelle loro vite spezzate.

Gente temprata dal dolore, perché il lutto ti può rendere indomabile nel carattere e (in maniera sacrosanta) poco rispettoso del potere che vorrebbe metterti a tacere o addomesticarti, dando in cambio qualche vuota commemorazione. Sono le vittime ribelli che non hanno mai smesso di puntare il dito per ristabilire ogni volta la verità. Che instancabilmente hanno denunciato e chiesto giustizia, affinché i morti non lo fossero invano.

Bisognerebbe ricordarlo allo smemorato Luigi Ciavardini, l’ex NAR già condannato in via definitiva come esecutore della strage di Bologna, accusato ora di mentire sull'identità di chi gli aveva curato le ferite d’arma da fuoco, con tanto di intervento chirurgico e rimozione di punti, dopo l’attentato del 28 agosto 1980, quando i Nar uccisero davanti al liceo Giulio Cesare di Roma, il poliziotto Franco Evangelista.

Certo è comodo fingere di dimenticare il passato ma forse Ciavardini potrebbe andarsi a leggere ciò che scrisse Rossana Rossanda condannando il terrorismo delle Brigate Rosse. Perché «il passaggio dalle dichiarazioni agli atti non è cosa da poco e i terroristi non sono eroi. Solo uomini e donne con ben poche qualità».

Parole semplici per dire che nell’uso del terrore contro civili non c’è niente di eroico e che non ci si può nascondere dietro il dito delle parole d’ordine dei capi, nel giustificare la violenza a mano armata.

Che la responsabilità delle scelte, specie se estreme e violente, ricade sempre sui singoli. Forse Ciavardini potrebbe dirci, da testimone della storia, quale è stato il confine tra segreto e occulto nelle stragi neofasciste.

Manzoni direbbe che se uno il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare, ma abbiamo ricordato da poco i 50 anni dalla strage di Piazza della Loggia a Brescia (altra “nobile” pagina dell’eversione nera) che il 28 maggio 1974 provocò la morte di 8 persone e ne lasciò ferite 94, per un ordigno piazzato nel cestino dei rifiuti sotto i portici.

Quale interesse stava tutelando l’informatore del Sid Maurizio Tramonte (militante di Ordine nuovo), condannato poi all’ergastolo proprio per la strage di Brescia? Era giusto che in nome della fedeltà all’anticomunismo, della difesa della patria dal pericolo sovietico, cittadini inermi pagassero con la vita?

La bomba sull’Italicus

Il 4 agosto 1974 sarà un altro triste anniversario: la bomba sul treno Italicus, che provocò la morte di 12 persone più di 40 feriti lungo il tratto ferroviario Firenze-Bologna, nella zona di San Benedetto Val di Sambro. L’Italia antifascista, scossa e ferita dalle stragi di intimidazione, ordite da terroristi di estrema destra, delusi da un colpo di Stato che non arrivava, seppe attraversare la sua pagina più buia con grande dignità e reagire in maniera pacifica, proclamando lo sciopero generale.

Dove trent’anni prima, nel luglio 1944, si era abbattuta la violenza degli eccidi nazifascisti, la gente scese in piazza per dire no alle trame eversive senza timore di fischiare i rappresentanti dei partiti di governo, dal presidente del Consiglio Mariano Rumor al segretario della Democrazia cristiana Amintore Fanfani. E il gonfalone della città martire di Marzabotto fu accolto da un fragoroso applauso.

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