- Mario Draghi era stato chiamato a presiedere un governo di (quasi) unità nazionale con due obiettivi: gestire la campagna vaccinale e avviare il Pnrr.
- Una coalizione che spazia su tutto l’arco politico comprendendo partiti ideologicamente inconciliabili, più l’incognita delle fluttuazioni pentastellate, non poteva reggere alla normalità della politica, che è fatta di conflitti ed, eventualmente, mediazioni. Alla fine anche Draghi si è trovato stretto tra l’illusione tecnocratica della scelta ottimale per tutti e la realtà delle domande e delle visioni contrastanti.
- Sarebbe un curioso precedente un presidente del Consiglio che rassegna le dimissioni dopo aver ottenuto i voti della maggioranza assoluta di entrambe le camere.
Mario Draghi era stato chiamato a presiedere un governo di (quasi) unità nazionale con due obiettivi: gestire la campagna vaccinale (sui cui inciampi questo giornale ha acceso un faro impietoso) e avviare il Pnrr. A fine anno il presidente del Consiglio dichiarava conclusa la sua missione e si poneva, con un pizzico di civetteria, come un «nonno a servizio delle istituzioni». Con il ché, era evidente a tutti che aspirava al Quirinale. Una collocazione che Domani ha insistentemente sostenuto come la migliore soluzione istituzionale. Avremmo avuto la sua autorevolezza a disposizione del paese per sette anni e invece, come si scrisse, rischiavamo di tenerlo solo per sette mesi. Appunto.
I partiti, in vario grado, hanno sorvolato sull’implicita richiesta. E Draghi si è di nuovo trovato, (suo malgrado?) alla testa di un esecutivo senza più una missione definita. Ma una coalizione che spazia su tutto l’arco politico comprendendo partiti ideologicamente inconciliabili, più l’incognita delle fluttuazioni pentastellate, non poteva reggere alla normalità della politica, che è fatta di conflitti ed, eventualmente, mediazioni.
Alla fine anche Draghi si è trovato stretto tra l’illusione tecnocratica della scelta ottimale per tutti e la realtà delle domande e delle visioni contrastanti. Il suo approccio tecnocratico si è progressivamente sfrangiato di fronte a bagnini e tassisti, a elusori fiscali e proprietari di villette non accatastate. Fino alla crisi dell’inceneritore. Che il capo del governo abbia fatto di questo provvedimento, ai pentastellati massimamente ostico, un elemento dirimente della sua esistenza, inserendolo in un decreto, induce a pensare che lo scarto del presidente del Consiglio rifletta altro.
Riflette, oltre al fastidio per la inevitabile rissosità della politica, la consapevolezza di non potere più guidare una coalizione così ampia senza una missione precisa. Eppure, proprio tale consapevolezza dovrebbe indurre Mario Draghi a dimostrare, una volta di più, di essere un uomo al servizio delle istituzioni e, come accade in politica, a sedersi di nuovo al tavolo con i rissosi partner di governo per condurre in porto la legislatura.
Del resto, il suo governo ha appena ottenuto la fiducia. Sarebbe un curioso precedente un presidente del Consiglio che rassegna le dimissioni dopo aver ottenuto i voti della maggioranza assoluta di entrambe le camere.
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