Dopo una delle più sguaiate campagne elettorali degli ultimi lustri, i cittadini italiani ed europei potranno finalmente esercitare il loro diritto-dovere di voto, partecipando attivamente a una tornata che – come è stato più volte ribadito dalle colonne di questo giornale – ha un’importanza eccezionale. Per il futuro stesso dell’Unione europea, la cui coesione è messa in serio rischio da una possibile vittoria dei partiti che predicano il ritorno all’“Europa delle nazioni”.

E per l’esito delle sfide esiziali che il vecchio continente deve affrontare, dalla riduzione delle diseguaglianze economiche figlie del liberismo selvaggio alla transizione ecologica, azzoppata dalle scelte recenti di Ursula von der Leyen che ventila (per tentare un bis alla presidenza della Commissione europea) un’alleanza con i negazionisti climatici dell’estrema destra.

Le conseguenze del voto incideranno anche sul peso geopolitico dell’Unione che verrà: impegnata in Ucraina in una difficilissima guerra per procura contro la Russia, schiacciata dai giganti Usa e Cina, una vittoria dei sovranisti in Germania, Francia, Spagna, Italia e negli stati dell’Est porterebbe inevitabilmente all’abdicazione alle politiche propense a una maggiore integrazione (già oggi deficitarie) su difesa, esteri ed economia, condannando la Ue, negli anni a venire, all’assoluta irrilevanza planetaria.

Ahinoi, dei suddetti temi le forze politiche italiane che si presentano alle urne hanno dibattuto poco o nulla. I risultati elettorali verranno letti a Roma innanzitutto come una sorta di grande sondaggio sulla salute del governo e dei partiti dell’opposizione. Ma non per questo l’esito del voto sarà meno importante. Giorgia Meloni ha trasformato – a colpi di marchette a evasori e corrotti, di immondi spot sulla pelle dei migranti, di volgarità e propaganda becera – le elezioni europee in un referendum su sé stessa.

La premier cerca il plebiscito e punta alla soglia del 30 per cento dei consensi, che le permetterebbe di accelerare il varo delle riforme autocratiche che sta portando avanti da mesi. Quella del premierato, che esautorerebbe parlamento e presidenza della Repubblica di molte prerogative che garantiscono l’equilibrio tra i poteri dello stato; l’autonomia differenziata propinata dai leghisti e accettata da FdI in una sorta di do ut des sulla pelle della Costituzione; quella della giustizia, il cui obiettivo finale non è quello di migliorare una macchina disfunzionale, ma di mettere la magistratura sotto il controllo dell’esecutivo.

“Giorgia” ha disegnato una strategia elettorale iperpopulista e divisiva, per chiamare a raccolta la sua base dura e pura e quegli italiani che credono sia ancora – nonostante il magro bottino di questo anno e mezzo di comando – “la più brava di tutti”. Dovesse prevalere nelle urne, Meloni potrebbe ergersi a unica padrona d’Italia, e innescare una spirale estremista non solo in Europa, dove insieme a Orbán, Marine Le Pen e ai conservatori sogna una vigorosa svolta a destra, ma pure dentro i nostri confini.

Al netto delle riforme suddette, il governo ha mostrato finora una distanza siderale rispetto ai principi liberali fondativi della nostra carta, come l’eguale dignità delle persone, il rifiuto della discriminazione di genere, la lotta alla povertà. Fino al sostegno delle libertà civili e politiche, in primis il pluralismo democratico e il rispetto di una libera informazione come controcanto al potere. E che invece, dalle censure in Rai alle querele temerarie, viene sistematicamente minacciata e tacitata da premier e ministri.

Una nuova affermazione verrebbe letta da Meloni, Salvini e alleati come un via libera definitivo all’orbanizzazione della Repubblica, processo già iniziato ma ancora sottotraccia. Un pericolo che l’“altra Italia” deve cercare di scongiurare attraverso un voto consapevole e informato, senza nascondersi nella comoda scorciatoia dell’astensione (che si teme molto alta) o nella delusione lagnosa verso le manchevolezze dei partiti progressisti, atteggiamento comprensibile ma sempre perdente di fronte alla granitica compattezza delle destre.

Non solo: la performance elettorale darà l’abbrivio al cantiere per la costruzione del campo largo, alleanza necessaria ad affrontare le prossime sfide politiche con qualche chance di vittoria: le nuove distanze tra le forze d’opposizione declineranno nuovi equilibri, che potrebbero favorire il dialogo tra Pd, M5s, la sinistra e i centristi. Ci si augura che i leader d’opposizione siano, dopo il voto europeo, più responsabili e aperti al compromesso: perché queste elezioni dimostreranno che c’è un pezzo largo del paese che non vuole morire meloniano.

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