- Non possiamo dire di essere sorpresi se non per il fatto che abbiamo vissuto vent’anni senza davvero rammentare che stavamo in guerra in Afghanistan. Ma gli afghani invece ci hanno sperato molto, soprattutto le minoranze, i giovani e le donne.
- Innumerevoli volte l’Europa e l’Occidente hanno abbandonato ai margini della storia chi aveva creduto in loro, chi li aveva aiutati, imitati, amati.
- Quale diritto morale abbiamo ancora di pretendere qualcosa? Di respingere chi ci arriva disperato sotto casa? Soltanto ascoltando il silenzio di quelle lacrime e di quella preghiera potremo redimerci dal nostro fallace egoismo.
«Moriremo lentamente nella storia» dice piangendo la ragazza afghana con le trecce nel suo video di addio, mentre le forze occidentali fuggono vergognosamente da Kabul. Le sue parole assomigliano a quelle di tutti gli abbandonati del nostro tempo, che non hanno quasi più la forza di gridare mentre vedono coloro che avevano promesso salvezza allontanarsi senza voltarsi indietro. Vengono in mente le parole di Blade runner: «Tutti questi momenti saranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia».
È la triste eredità che l’occidente lascia a quel povero paese, cavia dei suoi esperimenti, che oggi si prepara all’apocalittico tempo dei talebani. Non si tratta di essere nostalgici delle operazioni militari ma di accorgersi quanto siano micidiali e fallaci le decisioni di guerra prese alla leggera, sulla base di rancori, calcolo o eccitazioni collettive.
Come riparare ai nostri errori, immensurabili errori, che hanno illuso un’intera generazione di afghani urbanizzati, alla ricerca di un legame con il mondo esterno, di uno spazio nel mondo globalizzato? Oggi i talebani dicono di non voler restare isolati dallo stesso mondo che hanno combattuto ma com’è possibile credere che il risultato di una guerra ventennale sia senza conseguenze per chi ha respirato un’aria diversa?
Risvegliati dall’abitudinario torpore, i giornali italiani hanno inviato all’ultimo momento diversi reporter per raccontare la grande fuga. Che tristezza vedere giornalisti esperti sbarcare a Kabul per rimbarcare solo poche ore dopo in mezzo a una folla impaurita. Una guerra snobbata per anni in cui si giunge a pochi minuti dalla fine.
Tutto ciò che concerne l’Afghanistan è una trappola di bugie: un conflitto che non è mai piaciuto a nessuno dei governi che l’hanno fatto (nemmeno agli Usa), portato avanti in maniera riluttante solo perché bin Laden vi aveva trovato l’ultimo rifugio. L’idea era che dopo l’undici settembre bisognava pur fare qualcosa. Una guerra iniziata e subito dimenticata, perché c’erano altre urgenze come l’Iraq.
Non possiamo dire di essere sorpresi se non per il fatto che abbiamo vissuto vent’anni senza davvero rammentare che stavamo in guerra in Afghanistan, a parte ovviamente i nostri militari. Ma gli afghani invece ci hanno sperato molto, soprattutto le minoranze, i giovani e le donne.
Certamente si tratta di una minoranza sui circa 40 milioni dell’intera popolazione. La maggioranza afghana è tradizionalista, rurale, montanara. Ma quelle silenziose lacrime ci raccontano un’altra storia e chiedono: che ne sarà di noi? È un’immagine già vista. Innumerevoli volte l’Europa e l’occidente hanno abbandonato ai margini della storia chi aveva creduto in loro, chi li aveva aiutati, imitati, amati. Quale diritto morale abbiamo ancora di pretendere qualcosa? Di respingere chi ci arriva disperato sotto casa? Soltanto ascoltando il silenzio di quelle lacrime e di quella preghiera potremo redimerci dal nostro fallace egoismo: ritrovare un po’ di coraggio per dare casa, riparo, protezione.
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