L’università italiana è l’autoritratto nitido di una nazione. Come nelle piazze delle città non si ha più tempo a discutere dei problemi reali e si è troppo presi a litigare sui dissing tra cantanti, anche nei corridori delle istituzioni universitarie non è più in uso mettere in comune una cosa che un tempo si sarebbe definita autocoscienza di classe. È preferibile discutere dell’ultimo gossip concorsuale, piuttosto che approfondire le condizioni e il senso del nostro lavoro.

Quando poi accade di parlarne – rigidamente a bassa voce come novelli carbonari – non c’è nessuno che si dichiari soddisfatto del proprio lavoro. A quasi quindici anni dalla riforma Gelmini le previsioni più fosche (e più razionali) si sono tutte avverate: in un vortice di burocratizzazione, scambio di ruoli tra gli studenti e i consumatori soddisfatti, professori che sono ormai valutati come agenti di intermediazione finanziaria (il loro più grande merito non è l’intelligenza ma la capacità di attrarre fondi esterni), processi di precarizzazione che invece di essere un’eccezione sono diventati la norma, strambi modelli di governance che hanno trasformato le istituzioni universitari da esperimenti di autogoverno a dispotismi più o meno illuminati.

Non è rimasto più nulla di ciò che solo vent’anni fa poteva rappresentare una felice eccezione di questo mestiere: se gli insegnanti di scuola sono ormai distintamente la nuova classe operaia, anche i professori universitari sono ormai coinvolti in questo grande esperimento sociale del neoliberismo che disprezza i lavoratori della conoscenza e li rende sempre più frustrati e impoveriti.

Ma tutto ciò – l’onda lunga della riforma Gelmini e delle macerie che ha lasciato in eredità – è cosa nota e studiata. Ciò che vorrei portare all’attenzione è lo stato di diniego che si è impossessato di buona parte dei diretti interessati alla questione e che può rappresentare un cattivo presagio per la sfera pubblica di questo paese così malconcio.

Tutto tace

Se tutti si lamentano nel segreto dei corridoi, pochi sono disposti a prendere posizione pubblicamente. E questo non è un tempo qualsiasi. Con un riflesso iperattivo, i tenaci intellettuali di destra che hanno già ispirato Gelmini – Valditara è solo uno dei tanti nomi che si può fare – vogliono adesso completare l’opera, accanirsi, demolire definitivamente quelle macerie che sono rimaste per miracolo ancora abitabili.

Se un tratto generale mi pare definisca la crudeltà di questo governo, è precisamente questo: è un governo che vuole finire il lavoro di demolizione di un modello di stato, lavoro che è stato più o meno stancamente portato avanti negli ultimi decenni e che negli ultimi due anni ha subito una brusca e definitiva accelerazione.

Vale per la Costituzione, per la forma di governo, e anche l’università purtroppo non fa eccezione. Fieri della desertificazione che hanno prodotto, i sacerdoti della religione gelminiana hanno ricominciato a celebrare lugubri riti di rinnovamento. Siamo alla vigilia di un’ennesima controrivoluzione.

Fioccano le commissioni, i gruppi di lavoro, le promesse di riforme che da qui a pochi mesi stravolgeranno definitivamente ciò che resta dell’università. In pochi mesi ci attendono l’ulteriore estensione della precarizzazione contro ogni ragionevole evidenza della storia recente, le nuove regole per il reclutamento, la riconfigurazione dei compiti del professore universitario già stravolti da Gelmini, e chissà cos’altro ancora. Una vera e propria riforma di sistema che dovrebbe indignare e chiamare a raccolta tutti i soggetti coinvolti.

Invece tutto tace. Nell’inverno del nostro scontento, solo qualche sigla sindacale insiste meritoriamente nel segnalare la faccenda, ma le sue assemblee sono quasi deserte: nessuno di quei docenti che si dichiara così insoddisfatto delle proprie condizioni di lavoro ritiene valga la pena prendere posizione e schierarsi pubblicamente.

Non è più tempo di barricate nemmeno per gli studenti: in silenzio stanno accettando che le guerre stravolgano le nostre vite, figuriamoci se sentiranno l’esigenza di mobilitarsi per salvare un’istituzione nei confronti della quale si sentono davvero dei consumatori: devono prendere il più possibile, poco importa quel che lasciano in eredità alle nuove generazioni.

Se questo diniego è così forte dentro le mura universitarie, non si può pretendere che l’opinione pubblica se ne occupi. Non interessa letteralmente più a nessuno. Siamo alla vigilia di riforme che porteranno il sistema universitario un passo oltre la riforma Gelmini e sanciranno la fine delle università pubbliche per come siamo abituati a pensarle: non si annuncia alcuna mobilitazione, alcuna protesta, alcun movimento.

Abbiamo reso inabitabili i luoghi dei conflitti sociali (e le ultime leggi liberticide non promettono certo miglioramenti) e lo stato delle università manifesta questa incapacità di rendere pubblico il conflitto, di smascherare le criticità, di mobilitare una qualche forma di attenzione dell’opinione pubblica nei confronti di fenomeni sociali reali.

Un’esperienza frustante 

Una delle esperienze più frustanti che mi capita di fare è di chiacchierare di università con persone che ne stanno fuori: continuano a riferirsi a un mondo che non c’è più da (almeno) quindici anni, a rimproverare privilegi che ormai suonano grottescamente inattuali. Nonostante la riforma Gelmini, tutto sommato il discorso comune sull’università è ancora un concentrato di banalità, pregiudizi, odio di classe e invidia sociale. Nei confronti di una figura professionale che davvero non esiste più. Una costruzione ideologica che, unita al diniego con cui i diretti interessati non fanno alcuno sforzo per rimediare ai danni del governo, è pienamente funzionale alla demolizione definitiva che questo governo ha annunciato.

Se qualcuno proponesse oggi un referendum per salvare l’università, sono certo che non firmerebbero per sostenerlo nemmeno i professori universitari, pur così frustrati e lucidamente consapevoli della loro insoddisfazione.

«Tutto potrebbe essere diverso, e non c’è quasi nulla che io possa cambiare», ha scritto Luhmann in un raro momento di emozione. Ecco, non vorrei che questo fermo immagine così disperato possa finire per valere non solo per il mondo universitario. Il tempo stringe, non solo per l’università. Abbiamo bisogno di speranze, di conflitti agiti, di mobilitazioni comuni. Che qualcosa o qualcuno torni a farci credere che, se tutto dovrebbe essere diverso, tutto può ancora essere cambiato, insieme.

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