A Natale siamo tutti più buoni. Forse è per questo che il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha ritirato in questi giorni la sua querela contro Nicola Lagioia a seguito probabilmente delle precisazioni di quest’ultimo. Valditara ha detto che si era sentito offeso dal fatto che Lagioia aveva insinuato che egli non conoscesse la lingua italiana, Lagioia ha chiarito che il suo era un giudizio personale sullo stile letterario di un tweet del ministro, non un giudizio tecnico sulle competenze linguistiche. Lagioia ha rivendicato la libertà di espressione, ma negato di voler insultare il ministro. E, soprattutto, ha chiesto che la querela venisse ritirata.

Nello stesso torno di giorni, Christian Raimo ha reso noto di stare preparando un ricorso contro il provvedimento amministrativo che lo ha sollevato dall’insegnamento per tre mesi, gli ha decurtato lo stipendio di metà, gli impedisce di fare gli esami di stato e blocca i suoi scatti stipendiali.

La libertà di critica

Su queste pagine ho scritto che querelare chi critica i politici è un uso improprio del diritto. È un uso intimidatorio e violento di uno strumento necessario ma delicato. Lo stesso vale per il provvedimento amministrativo contro Raimo, e a nulla vale che Valditara ripeta che lui non ne è responsabile, ma si tratta di un procedimento autonomo, derivante dalla violazione di un codice deontologico. (Peraltro, dire che non ne è responsabile non chiarisce all’opinione pubblica se il ministro sia o no d’accordo col provvedimento. E sarebbe il caso di saperlo.)

Per il buon funzionamento della pubblica opinione democratica, dev’essere possibile muovere critiche con la massima libertà. Si noti che in questo caso non erano in discussione fatti. Il giudizio sulle qualità letterarie del tweet di Valditara era appunto un giudizio. E anche il giudizio sulle competenze linguistiche, francamente, non è un fatto, o un fatto così chiaro. I linguisti che il ministro sostiene di aver consultati per verificare la correttezza del suo tweet forse avrebbero anche potuto spiegargli che la padronanza di una lingua ha livelli, e non è un fatto discontinuo – o tutto o niente.

Gli esempi 

Nel 1954, Giovannino Guareschi pubblicò sul Candido, il settimanale satirico che dirigeva, due lettere del 1944, attribuite ad Alcide De Gasperi, in cui sembrava che quest’ultimo chiedesse agli Alleati di bombardare Roma per fiaccare la resistenza tedesca. De Gasperi querelò Guareschi, negando l’autenticità delle lettere. Il processo finì male per Guareschi, che, senza presentare appello, scontò più di un anno di carcere e sei mesi di libertà vigilata, e non chiese mai la grazia.

Nel 1980, nella Commissione parlamentare sul caso Moro, Leonardo Sciascia riferì che Enrico Berlinguer anni prima gli aveva parlato, alla presenza di testimoni (fra cui Renato Guttuso), di legami possibili fra terrorismo italiano e Cecoslovacchia. Berlinguer smentì e querelò. Sciascia querelò il segretario del Pci per calunnia.

Lagioia non ha avuto il coraggio di Guareschi e Sciascia. Forse non lo si può rimproverare per questo, giacché essere coraggiosi è difficile, e costoso, quando ci sono in mezzo gli avvocati. Ma la libertà di espressione non è solo una libertà. O meglio, è una libertà che trae la sua giustificazione dal valore che la discussione pubblica ha per la democrazia. Il che la rende anche un dovere. Non farsi intimidire da un potere che assume le vesti di un ufficiale giudiziario, di una richiesta onerosa di risarcimento, non è facile. Le minacce spaventano.

Ma il bene della discussione libera è troppo prezioso, per tutti, per svenderlo e per fare passare minacce del genere. Il bene della discussione libera serve per garantire altre libertà. Anche cedere può indebolirlo. Forse, di fronte a queste minacce sarebbe meglio chiedere aiuto, solidarietà anche concrete, piuttosto che intorbidare le acque, e far passare l’idea che una richiesta di risarcimento possa influenzare il pensiero e le opinioni di liberi cittadini. La funzione degli intellettuali è primariamente di testimoniare la verità.

Non si possono contemporaneamente usare le prerogative di questa funzione – per esempio il facile accesso ai mezzi di comunicazione, il potere di influenza – e spaventarsi dei prezzi che ne derivano.

Esiste una missione del dotto e una responsabilità intellettuale. Cedere alle minacce non ne fa parte, nonostante la comprensione umana per le difficoltà e i rischi. Cedere alle minacce priva altre voci e altre opinioni dello spazio e lede tutti i cittadini, privandoli del diritto alla verità e alla discussione pubblica democratica.

© Riproduzione riservata