Il generale parte da un’idea apparentemente corretta per giungere a una conclusione odiosa. Perché che una persona con gravi difficoltà iniziali raggiunga buoni esiti conta molto di più che una persona già privilegiata eccella
È facile ignorare o criticare il generale Vannacci, che si avvia a diventare un tipo umano, un ruolo, una funzione, più che una persona reale. Facilissimo è farlo considerando le sue parole sulle persone neurodivergenti o neurodiverse.
Ma i presupposti di quel che dice il generale Roberto Vannacci sono molto più condivisi di quanto sembri. Vannacci ha giustificato l’idea di trattamenti speciali per le persone neurodiverse con due argomentazioni. Primo: servono strategie differenti per massimizzare le prestazioni di individui con talenti differenti. Secondo: a individui con capacità diverse non si debbono richiedere i medesimi obiettivi, e non si debbono misurare con lo stesso parametro le prestazioni di persone con abilità diverse.
Ci sono due questioni ovvie sollevate da queste parole. C’è la questione dell’insidia tendenziosa di questo modo di pensare: si parte da un’idea apparentemente corretta (l’aiuto dei meritevoli, i ragazzi con grandi potenzialità, che è parallelo all’aiuto dei meno dotati) e si arriva a una conclusione odiosa.
Altro che non discriminatorio: Vannacci ritiene che le capacità umane siano un dato fisso di natura e che i ragazzi con difficoltà, come li chiama, siano destinati a rimanere sempre nelle retrovie.
Non è sfiorato dall’idea che siano i progressi relativi (dove si arriva partendo da un certo punto) a essere più importanti dei risultati assoluti in una scuola democratica: che una persona con gravi difficoltà iniziali raggiunga buoni esiti conta molto di più che una persona già privilegiata, dalla società e dai talenti, eccella.
C’è poi la questione dell’enorme patrimonio scientifico della pedagogia e dei disability studies, che Vannacci ovviamente ignora del tutto, e che fornisce argomentazioni inoppugnabili per l’inclusione e per la plasticità umana: le capacità umane non sono per nulla fisse, fortunatamente.
Dietro alle idee di Vannacci c’è una visione agonistica. Il riferimento ideologico non è la Costituzione, una qualche teoria pedagogica o le neuroscienze: è il Guinness dei primati.
Per Vannacci la vita (e la scuola e la società) sono competizioni sportive: essenziale è selezionare vincitori e isolare classi di merito. Una visione pugilistica della vita. Capire chi è peso piuma, chi è supergallo. Vannacci è come Tashy Duncan, il personaggio di Zendaya in Challengers di Luca Guadagnino: conta solo parlare di tennis, solo a chi vince si concede l’amore.
Nel mondo di Vannacci non c’è spazio per la scuola dove non importano soltanto competenze, capacità e prestazioni, ma anche e soprattutto relazioni umane e vita associata. E dove ovviamente la neurodiversità, come tutte le altre diversità, arricchisce i neurotipici, che così comprendono modelli di vita e di fioritura alternativi.
Ma la visione di Vannacci è anche la nostra. Non solo in neoconservatori come Paola Mastrocola o Ernesto Galli Della Loggia. È la filosofia degli ultimi anni di riforme scolastiche, di molti genitori e genitrici, docenti e studenti e studentesse. È la giustificazione della visibilità mediatica data periodicamente alle classifiche delle scuole superiori, ai ranking delle università e dei ricercatori. È cattiva filosofia della scienza (la ricerca scientifica è un’impresa cooperativa, non ci sono geni solitari). È ideologia commerciale, che tratta come influencer e secondo la logica dei social tutto e tutti, inclusi i professori.
Dovremmo liberarci dal mito della produttività scientifica e di una scuola come esclusivo luogo di formazione e avviamento al lavoro. Solo così eviteremmo la deriva razzista e abilista che Vannacci esprime ingenuamente, ma non è certo solo sua.
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