Nel libro di Davide Lerner “Il Sentiero dei dieci” (Piemme) una comunità israeliana di confine, ancora sfollata, diviene il microcosmo ideale per indagare il conflitto
Era una di quelle serate invernali in cui la differenza climatica fra il tepore della costa di Tel Aviv e le temperature rigide delle colline di Gerusalemme si fa sentire in maniera più pronunciata. Alle 17.30 del 3 gennaio 2024 nel parcheggio del Museo d’Israele, una delle istituzioni culturali più importanti del Paese, era già buio e soffiava il vento. Era la prima volta che i residenti di Netiv Ha’asara, la comunità israeliana più vicina in assoluto alla striscia di Gaza, si radunavano dopo il massacro: un’emozione e un confronto di cui ho avuto il privilegio di essere testimone diretto.
La maggior parte dei circa 150 partecipanti venivano dal Royal Beach di Tel Aviv, dal resort Ye’arim di Ma’ale HaHamisha, e da altre località in giro per il Paese in cui erano sfollati dall’inizio della guerra. Hila arrivava in macchina dalla sua residenza temporanea di Gedera dopo un periodo in cui aveva rimuginato sulla possibilità, questa volta, di farla finita e lasciare davvero il villaggio.
La sede dell’incontro era inconsueta e prestigiosa. Il museo custodisce alcuni fra i reperti del passato più antico di Israele, come i rotoli del Mar Morto, risalenti al periodo del Secondo Tempio, circa 2000 anni fa. Quando vennero scoperti, nel 1947, mentre lo Stato di Israele stava nascendo, furono interpretati come una conferma delle radici antiche del popolo ebraico e del suo diritto ad abitare lì. Perciò il museo è diventato un monumento alla legittimità storica di Israele. Quella sera di un inverno di guerra, però, si trasformava, al contrario, in un parlamento per discutere del suo futuro.
L’atmosfera era elettrica. I residenti, che erano abituati a incontrarsi per strada ogni giorno, si rivedevano dopo quasi tre mesi. Prima di poter chiacchierare e di potersi scambiare storie sul 7 ottobre, durante la cena, dovevano affrontare dei nodi spinosi sulla situazione del moshav. Il primo a prendere in mano il microfono è stato un rappresentante della Rashut Hamissim beIsrael, l’autorità per le tasse di Israele, venuto a spiegare come reclamare i danni di guerra.
L’unica chance di ottenere almeno un parziale risarcimento economico era dare retta a questo rappresentante ministeriale di mezza età, alto, dinoccolato e con la pancetta, che stava delineando con un tono monotono i dettagli tecnici delle procedure. Il suo modo di fare era subito risultato sgradevole al consesso di sopravvissuti: appariva un burocrate incapace di mostrare empatia e non era, d’altronde, quello il suo mestiere.
Gli israeliani si rivolgono in modo diretto alle autorità senza remore: per strada capita di vederli urlare ai poliziotti, dandogli ordini su cosa fare. Figurarsi con un funzionario ministeriale. Etai Levy, un omone corpulento di 49 anni con la carnagione scura, ha detto: «Dovete cambiare approccio rispetto alle compensazioni. Non si possono applicare gli stessi criteri impiegati dopo Tzuk Eitan (l’operazione israeliana “Margine Protettivo” su Gaza del 2014) e dopo Shomrei Homot (l’operazione “I guardiani del muro” del 2021) perché siamo di fronte a qualcosa di completamente diverso».
C’era un brusio di fondo nella sala. Senza lasciare che il rappresentante potesse rispondere, Moshé Edri, un anziano signore del villaggio, ha impugnato il microfono cambiando discorso. «Il problema principale del moshav (comunità agricola) al momento è la sua sicurezza» ha detto. «Alcuni residenti pensano che, dopo quello che hanno passato, sarebbe una buona idea spostarlo in un’altra località più protetta all’interno del Paese».
Per molti dei presenti l’intervento a gamba tesa di Edri era come un tuffo nel passato. Li riportava a quattro decenni prima, all’epoca della pace con l’Egitto. Al trasferimento del villaggio dal Sinai, il territorio desertico che fu restituito al Cairo nel 1982, e alla ricostruzione sul limitare settentrionale della striscia di Gaza.
Per molti era stata un’esperienza traumatica, che non avevano la forza di ripetere. Hila scuoteva la testa in segno di disapprovazione. Eppure quella domanda aleggiava nell’aria. Tutti sapevano cosa stesse capitando alle comunità che erano state colpite più duramente negli attacchi, malgrado Netanyahu continuasse a promettere una rinascita della regione frontaliera. Stavano spostandosi in località provvisorie che tendevano però a trasformarsi in semipermanenti all’interno di Israele. Senza fare mistero del fatto che, nel proprio villaggio, forse non sarebbero mai più tornati.
Etai Levy appartiene al gruppo di residenti che ha un attaccamento particolarmente forte a Netiv Ha’asara: chi mette in dubbio il futuro del moshav lo tocca nel vivo. Altro che trasloco, ha esordito Etai nel suo discorso al raduno. Netiv Ha’asara, piuttosto, doveva fare di questa congiuntura storica un’occasione di rilancio. Sfruttare l’ondata di solidarietà oltre agli sgravi fiscali e agli aiuti concessi dallo Stato.
«Mi rendo conto che quello che sto dicendo può risultare cinico: “Non siamo nemmeno ritornati nel villaggio e tu sei già lì che ci parli di un’espansione?” Ma la mia risposta è sì. Dobbiamo sfruttare le opportunità, e io come rappresentante sto cercando di ottenere il massimo per tutti noi.»
Etai era convinto che servissero nuovi stimoli per consentire al villaggio di voltare davvero pagina. «Non basta un ritorno al 6 ottobre per trattenere i residenti» spiegava. Oggi sappiamo che, oltre un anno dopo l’inizio della guerra, più della metà del moshav rimane vuoto.
Lo stesso Etai, messo alle strette, ammetteva come la sicurezza restasse un’incognita. Il piano di creare una «zona cuscinetto» all’interno della Striscia per tenere i palestinesi a una distanza fra i 900 metri e 1,4 chilometri dal confine non poteva secondo lui considerarsi una garanzia sufficiente. «La zona cuscinetto: mi dà sicurezza? Mi dà serenità? Posso stare tranquillo che tra cinque anni non la cambieranno? La risposta è no, purtroppo» confessava. «Ma sono cresciuto nel villaggio, e mi sveglio ogni mattina con un sogno: quello di vedervi tutti tornare lì».
[...] Raz Shmilovich, un membro della kitat konenut, l’unità di sicurezza di pronto intervento formata da civili del villaggio, ha detto che sua moglie si rifiutava anche solo di discutere di un possibile rientro. Non voleva nemmeno oggetti che provenissero dalla sua casa: anche un banale utensile da cucina – spiegava – avrebbe potuto riportarla con la mente lì dove non voleva andare. Raz sperava segretamente che cambiasse idea. «Mai dire mai» ha detto.
Alfredo Wachs stava iniziando a fare qualche visita nel moshav durante il giorno. Al solito, esorcizzava lo sconforto con il suo atteggiamento scherzoso. «Vado a vedere gli alberi, a curare il giardino e il mio gatto» ha detto. «Sì, è ancora vivo». Dopo il dibattito al Museo d’Israele, si confrontava con un altro anziano del villaggio. «Qual è la tua conclusione, dopo aver sentito tutto?» gli ha chiesto l’amico. «Sto cercando un posticino in Portogallo», gli ha risposto Alfredo. Dopo tutto, non erano quasi tutti ebrei lì prima dell’Inquisizione? «Oggi non sanno nemmeno di essere ebrei» ha continuato Alfredo. «O hanno paura di dirlo».
l sentiero dei dieci. Una storia tra Israele e Gaza, di Davide Lerner. Edito da Piemme (pp. 192, euro 17)
© Riproduzione riservata