- Il tribunale di Milano ha assolto 13 imputati e due società, Eni e Shell, dall’accusa di corruzione internazionale nella vicenda dell’acquisizione del giacimento nigeriano OPL245 da parte di Eni e Shell per 1,3 miliardi.
- Quei soldi sono finiti nelle tasche di politici nigeriani, invece che dello stato della Nigeria. Tutto il processo si è consumato sulla qualificazione giuridica: mazzetta o transazione legittima?
- La sentenza ha stabilito che quella operazione non era corruttiva, ma di argomenti per discutere la gestione dell’Eni ne restano parecchi, a prescindere dalla qualificazione penale di molte scelte.
Grande sollievo nelle redazioni di molti giornali per l’assoluzione dell’ultimo grande inserzionista pubblicitario rimasto, cioè l’Eni. Nel tripudio per lo scampato pericolo, o forse nella speranza di poter ora limitare i peana all’amministratore delegato Claudio Descalzi, vengono dette anche parecchie inesattezze. E quindi è utile provare a mettere in fila un po’ di punti fermi all’indomani di una sentenza storica, per quanto di primo grado e della quale conosciamo soltanto il dispositivo ma non le motivazioni.
Partiamo dal dato di cronaca: il tribunale di Milano ha assolto 13 imputati e due società, Eni e Shell, dall’accusa di corruzione internazionale nella vicenda dell’acquisizione del giacimento nigeriano OPL245 da parte di Eni e Shell per una cifra complessiva di 1,3 miliardi. Quei soldi sono finiti nelle tasche di politici nigeriani, invece che dello stato della Nigeria, e per questo la procura di Milano contestava la corruzione internazionale. Questo è un fatto assodato che nessuno, neppure l’Eni, nega. Delle mazzette di rientro ai manager dell’Eni, cercate per anni dalla procura, invece non c’è evidenza. Se non nel caso di Vincenzo Armanna, all’epoca dirigente Eni e poi, a fasi alterne, accusatore di Claudio Descalzi, l’attuale ad. Armanna ha sicuramente ricevuto 917mila dollari spacciati per un’eredità.
Sesso sicuro in Nigeria
Tutto il processo si è consumato sulla qualificazione giuridica della vicenda: il pagamento di 1,1 miliardi (i primi 200 hanno seguito una procedura diversa) era la più grande mazzetta della storia o una transazione assolutamente legittima, visto che avveniva tra due aziende europee e un governo legittimo, quello allora guidato da Goodluck Jonathan? L’Economist, anni fa, aveva coniato una formidabile metafora per l’operazione: “sesso sicuro in Nigeria”, con il governo usato come un preservativo che evitasse contatti sconvenienti tra i pagatori – Eni e Shell – e i beneficiari ultimi della transazione, un ex ministro nigeriano, Dan Etete, che si era auto-intestato la concessione e i suoi referenti politici dell’epoca.
A giudicare dal dispositivo della sentenza, il tribunale di Milano si è convinto che la transazione invece era legittima. Quindi il fatto che “non sussiste” è l’atto corruttivo, ma che il pagamento ci sia stato non lo possono mettere in dubbio neanche i tanti cantori delle gesta dell’Eni sui giornali.
Questa assoluzione viene presentata da molti come un fallimento completo della procura di Milano e la fine di una interminabile persecuzione giudiziaria nei confronti di un gioiello italiano, cioè l’Eni, iniziata ai tempi di Mani Pulite.
Che l’Eni sia gestita in modo mirabile è oggetto di dibattito. Durante la gestione Descalzi la capitalizzazione di Borsa dell’Eni si è dimezzata, non certo solo per colpa dell’amministratore delegato, e oggi l’azienda è impegnata in una transizione ecologica molto contestata che ha cercato di far pagare al contribuente italiano, visto nella prima bozza del Recovery Plan del governo Conte c’erano almeno 3,1 miliardi destinati a progetti Eni.
Ma stiamo alla vicenda giudiziaria: che la qualificazione giuridica dell’affare nigeriano fosse difficile lo dimostrano sentenze di condanna, arrivate prima grazie al rito abbreviato, per i mediatori dell’operazione.
Due anni fa il tribunale di Milano ha condannato a quattro anni di reclusione per corruzione internazionale Emeka Obi e Gianluca di Nardo per il ruolo svolto in una corruzione, secondo la sentenza nel processo principale, non era tale.
C’è stato anche un tentativo di depistaggio giudiziario che non si vedeva dalla stagione buia degli anni Settanta, con accuse false e documenti artefatti, per sabotare il processo Eni Nigeria. Un depistaggio che ha visto coinvolti alti vertici dell’Eni, oggi indagati.
Vedremo gli esiti anche di questo filone. I fatti sono che una rete di faccendieri, magistrati e avvocati, incluso un legale che dall’Eni ha preso milioni di euro di parcelle, Piero Amara, hanno manovrato falsi testimoni per acquisire informazioni sull’operato dei pm a Milano e per infamare i due consiglieri di amministrazione che cercavano di avere chiarezza sull’affare nigeriano, Karina Litvack (sospesa dal comitato rischi che si occupava di Nigeria) e Luigi Zingales (spinto alle dimissioni).
Poi c’è un’altra inchiesta nella quale è sempre indagato Descalzi perché, quando era numero due dell’Eni, l’azienda ha affidato 300 milioni di euro a società controllate da Maria Magdalena Ingoba. Cioè la moglie di Descalzi. Un’altra inchiesta riguarda il Congo, dove l’Eni è orientata a patteggiare se il reato passa da corruzione internazionale a “Induzione indebita”.
Nessuna eccezione italiana
Come si vede, quindi, non c’è un “teorema” sull’Eni, ma una serie di vicende che giustificano una discussione pubblica sulla governance della più importante tra le aziende a controllo pubblico italiano, a prescindere dalle sentenze. Anche perché queste vicende non sono emerse grazie all’azione dei pubblici ministeri, ma a quella di organizzazioni non governative impegnate per la trasparenza, come Re: Common e Global Witness, che hanno fatto a Descalzi e colleghi le domande che nessun politico aveva interesse o incentivo a fare. E spesso hanno ricevuto come risposta delle bugie, messe però a verbale dalle assemblee dei soci.
La teoria del grande complotto mediatico-giudiziario contro l’Eni serve a sostenere che indagare per corruzione internazionale è una perdita di tempo perché solo in Italia la giustizia si permette di mettere in discussione le pratiche dei campioni nazionali e soltanto in Italia ci facciamo problemi a pagare mazzette in paesi stranieri. Non è forse inevitabile pagare tangenti in Africa? Ripetere una bugia molte volte non la rende più vera.
Gli Stati Uniti, per esempio, hanno una legge che si chiama Foreign Corrupt Practices Act e la Sec, la Consob americana, ha una divisione specifica che si occupa di perseguire la corruzione delle aziende americane all’estero.
Soltanto nel 2020, la Sec ha sanzionato Goldman Sachs per oltre 1 miliardo di dollari e altre aziende vigilate. In Francia i magistrati di Parigi, grazie a una legge anticorruzione introdotta nel 2016, a febbraio 2020 hanno ottenuto dal campione nazionale Airbus un pagamento record di 3,6 miliardi di dollari per l’uso di mediatori a fini corruttivi negli affari internazionali. La Gran Bretagna ha il suo Serious Fraud Office che sanziona grandi aziende inglesi responsabili di corruzione, il record è ai danni di Rolls-Royce nel 2017, per 617 milioni di sterline.
In Italia la Consob vigila sui mercati finanziari ma non si occupa di corruzione, mentre l’Autorità anticorruzione si occupa soltanto di appalti pubblici e non di aziende quotate. Resta una zona scoperta nella quale soltanto i magistrati possono perseguire la corruzione internazionale, cioè l’uso di tangenti per corrompere pubblici ufficiali in paesi stranieri.
Quindi in Italia non c’è un accanimento particolare, ma semmai una stortura per la quale soltanto ai magistrati interessa se grandi aziende giuridicamente private ma con vertici nominati dalla politica corrompono funzionari stranieri.
Che le mazzette siano poi inevitabili o addirittura utili in certi paesi è opinabile: c’è una vasta letteratura economica che sfata il mito in base al quale un po’ di denaro permette di oliare ingranaggi altrimenti ingolfati dalla burocrazia.
L’acquisizione del giacimento OPL245 è stata contestata non soltanto dai pm italiani ma anche dalla giustizia e dalla politica nigeriana. Perché, anche se per il tribunale italiano quella non è stata corruzione, la dinamica della transazione che ha coinvolto Eni e Shell ha comunque privato i cittadini nigeriani di soldi che spettavano a loro e che invece sono finiti, tra l’altro, in un jet Bombardier Vision e varie Cadillac blindate.
Ai tanti commentatori che esultano perché “crolla il teorema” della procura, ossessionata dalla “mania” di indagare sull’Eni, dovrebbe venire un dubbio: le grandi società italiane sono penalizzate più dal fatto di trovarsi spesso sotto indagine dai pm, o dall’avere sede in un paese pieno di politici e opinionisti che considerano la corruzione una legittima pratica di business e il rispetto delle regole una cosa da fessi?
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