Due casi, tremendamente simili, giovanissime donne vittime di giovanissimi uomini. A distinguere le vicende la nazionalità degli aggressori: italiani la scorsa estate, egiziani stavolta, secondo la ricostruzione effettuata dagli inquirenti . E c’è la narrazione che cambia, come conseguenza
La scorsa estate, all’inizio di luglio a Palermo, sette ragazzi hanno aggredito e violentato una ragazza di diciannove anni, dopo averla stordita con l’alcol. Pochi giorni fa, a Catania, sette ragazzi hanno aggredito e violentato una ragazza di tredici anni, davanti agli occhi del fidanzato.
Due casi, tremendamente simili, di stupro di gruppo, perpetrato da giovanissimi uomini su giovanissime donne. A parte la minore età della seconda vittima, a distinguere le due vicende c’è un solo elemento. Anzi due. C’è la nazionalità degli stupratori: giovani italiani a Palermo, giovani egiziani secondo la ricostruzione effettuata dagli inquirenti a Catania. E c’è la narrazione che cambia, come conseguenza.
La stampa di destra, quando un crimine come questo è commesso da stranieri rilancia, con una sorta di automatismo, il frame dello scontro di civiltà, del pericolo che viene dal mare. Lo stupro si spiega con l’«emergenza immigrati minori». Colpevole è il sistema di accoglienza, a cui i sette giovani egiziani erano affidati; è la «sinistra che tace»; sono le femministe che rigettano la strumentalizzazione razzista di questi crimini.
L’eccesso maschile
Per qualcuno, di fronte all’orrore, è forse confortante pensare che la violenza contro le donne, anziché avere «natura strutturale» in quanto «basata sul genere», come recita la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa, sia invece effetto di un’aggressività maschile da imputare a culture “altre”, o un comportamento che discende da condizioni di irregolarità e marginalità.
Si tratterebbe, a vederla così, di un eccesso rispetto alla norma di una maschilità civilizzata, educata. Un eccesso di cui è portatrice quell’umanità senza diritti e senza valore che va respinta alle frontiere, o confinata nei centri di detenzione amministrativa. Se poi in quei luoghi di abbandono istituzionale un ragazzo di ventidue anni si toglie la vita, come accaduto pochi giorni fa a Ponte Galeria, sarà un incidente di percorso sulla strada verso una società ben ordinata.
Ma la violenza del regime dei confini non cancella la violenza contro le donne. Se possibile la alimenta, la moltiplica. E la semplificazione del problema serve solo a sollevare dalla fatica del pensiero.
La rabbia e la paura
Da più di tre decenni, in Italia, la rabbia e la paura che nascono da ogni forma di disagio sociale vengono indirizzate dagli imprenditori politici della destra contro i migranti. Allontanando le risposte – complesse, laboriose, meno spendibili a fini di immediato consenso – che potrebbero affrontarne le cause.
Le risposte che servono implicano uno sforzo di trasformazione profonda dei rapporti tra uomini e donne, e muovono dalla consapevolezza che «stupratori si diventa, e non si nasce», come ha scritto Joanna Bourke nel suo volume poderoso sulla storia della violenza sessuale.
Si diventa stupratori attraverso l’apprendimento di codici virilisti, che possono variare nel tempo e tra le culture, ma sempre rimandano all’esercizio di potere sui corpi delle donne. E sono tradotti nell’agire violento a vantaggio di un pubblico reale o immaginario di altri uomini, per averne l’approvazione, per avere certezza di appartenere alla comunità maschile dominante. Nello stupro di gruppo questa esibizione virile sotto lo sguardo altrui si fa persino letterale.
Non c’è scorciatoia possibile, né retorica né politica, di fronte a un flagello che ha radici profonde ma è sociale e in quanto tale estirpabile. Non c’è alternativa all’impegno per la trasformazione dei modelli di virilità, di cui gli uomini stessi sono chiamati a farsi protagonisti.
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