Hans Kelsen difendeva la fatalista adesione agli esiti delle procedure democratiche. Karl Loewenstein perorava invece quella che ad oggi potrebbe definirsi la “via romena”: le istituzioni fedeli agli ideali democratici devono intervenire in modo risoluto sulle forze interne che le minacciano
Con la definitiva esclusione di Călin Georgescu dalle elezioni presidenziali, la Romania diventa l’avamposto di un nuovo epocale conflitto tra le democrazie europee e i partiti antisistema. Dopo il controverso annullamento delle elezioni presidenziali del 24 novembre 2024, lo scorso 11 marzo la Corte costituzionale romena ha confermato la decisione con cui l’ufficio elettorale impedisce la nuova candidatura di Georgescu alle prossime elezioni di maggio. Quello romeno si dimostra così il più eclatante caso di “militanza democratica” europea contro il nemico interno.
Tutt’altro che insignificante è che a inizio marzo la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) abbia dichiarato inammissibile il tentato ricorso di Georgescu contro la Romania. Il candidato filorusso aveva lamentato l’abnormità e la scarsa trasparenza della sentenza della Corte romena, presa sulla base di dibattute informative del Consiglio supremo della difesa. Oltre all’infrazione di alcuni articoli fondamentali della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come il diritto a libere elezioni e al giusto processo, Georgescu ha lamentato la violazione della libertà di espressione e della libertà di riunione e di associazione. A suo avviso, per impedire il suo legittimo successo elettorale, la democrazia romena avrebbe impiegato gli strumenti liberticidi tipici delle dittature. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto del tutto prive di sostanza le numerose e gravissime doglianze dell’ormai ex candidato, legittimando di fatto l’azione muscolare delle istituzioni romene.
La Romania si trova infiammata e divisa tra due opzioni egualmente tragiche: restringere i margini di libertà delle forze politiche che minacciano la democrazia o affidarsi al libero gioco delle elezioni? Le istituzioni hanno optato per una risposta energica, ma senza dubbio di scarsa trasparenza. Ad avviso di Georgescu, così facendo gli hanno concesso una smagliante vittoria contro le false promesse della democrazia – in Romania come nel resto dell’Europa. In tal modo, il dilemma di una democrazia contro sé stessa si trasferisce dai libri di teoria politica alle proteste di piazza. Il lacerante dilemma che attraversa la sfera pubblica europea è allora il seguente: quando ne va della vita delle istituzioni democratiche, è legittimo violare i diritti e le libertà di alcuni cittadini che potrebbero arrecarvi minaccia? E cosa fare se costoro non sono privati cittadini, bensì leader politici che godono del sostegno di ampie fasce della popolazione?
Kelsen contro Loewenstein
Un secolo fa, nelle angosciose fasi della lotta al nazifascismo, due grandi difensori della democrazia avanzavano argomenti tra loro opposti. Hans Kelsen difendeva la fatalista adesione agli esiti delle procedure democratiche: la legittimità del sistema costituzionale riposa per intero sulla libera volontà del popolo. Se la cittadinanza consapevolmente offre il proprio sostegno a forze contrarie alla democrazia, e imbocca così la strada del suicidio politico, non c’è che da prenderne atto. Karl Loewenstein, iniziatore del paradigma della “democrazia militante”, perorava invece quella che ad oggi potrebbe definirsi la “via romena”: le istituzioni fedeli agli ideali democratici devono intervenire in modo risoluto sulle forze interne che le minacciano, anche e soprattutto quando ottengono significativi risultati elettorali. Non ci si può concedere il lusso di essere democratici con i nemici della democrazia e per loro la legalità deve “andare in vacanza”.
Oggi molti leader europei si richiamano apertamente all’opzione di Loewenstein in nome di una nuova “minaccia esistenziale” da parte del tramputinismo, che tuona dall’esterno e all’interno gode del sostegno di ben finanziate quinte colonne. Dinanzi al pericolo, più che concreto, che i partiti antisistema ottengano crescente sostegno popolare, l’interrogativo che scuote le coscienze democratiche è se davvero si possa mandare in vacanza la legalità. Quanto può reggere un argine puramente procedurale? E soprattutto: quanto democratico può ancora dirsi uno Stato che utilizzi gli strumenti dei nemici dichiarati della democrazia? Perché l’apparato repressivo funzioni (ammesso che funzioni), c’è l’urgente bisogno di diffondere l’idea che non esiste sicurezza senza libertà. Se le istituzioni democratiche scelgono la sola sicurezza, adottando una condotta spregiudicata e opaca contro la libertà dei suoi nemici, il rischio più serio è che facciano così il loro gioco.
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