Il cervello riceve informazioni dall’esterno in ogni istante della nostra vita. Trasportate dai sensi, ce ne arrivano di ogni tipo, alcune delle quali sono immediate, come il rombo di un tuono, altre codificate in modo sofisticato, come una sonata per violino o una frase. Confusi dall’euforia dei big data, saremmo tentati di dire che quante più informazioni arrivano al cervello tanto più ricca è la nostra rappresentazione della realtà. Ma non è così.

«Supponiamo che una porzione della superficie dell’Inghilterra sia perfettamente livellata e smussata e che venga quindi utilizzata per produrre una mappa precisa dell’Inghilterra. […] Ma ora supponiamo che questa somiglianza sia resa assolutamente precisa […] Una mappa dell’Inghilterra, contenuta nell’Inghilterra, deve rappresentare fino al più piccolo dettaglio, ogni contorno e segno, naturale o artificiale, che si trovi sul suolo inglese.

Perché questa mappa sia completa, secondo questa regola, deve contenere, come parte di se stessa, una rappresentazione dei suoi contorni e del suo contenuto. Perché questa rappresentazione possa essere costruita, la rappresentazione stessa dovrà contenere ancora una volta, come parte di se stessa, una rappresentazione dei suoi contorni e dei contenuti e questa rappresentazione, per essere esatta, dovrà ancora una volta contenere un’immagine di sé stessa e così via senza limiti. Dovremmo dunque senza dubbio supporre che lo spazio occupato dalla nostra mappa perfetta sia infinitamente divisibile se non proprio un continuum» (J. Royce, The world and the individual 1900-01; pp. 504-05).

L’omissione

In altre parole, una mappa, di borgesiana memoria, che contenga tutte le informazioni di un posto, sarebbe non solo inutilizzabile ma addirittura impossibile. Saremmo intrappolati negli infiniti, come tra due specchi opposti.

Per costruire una mappa, occorre dunque omettere dei dati ma l’omissione di per sé non è affatto scontata perché non esistono dati intrinsecamente irrilevanti. Se voglio capire dove possono trovarsi le api in una vallata, dovrò avere una mappa che comprenda i tipi di vegetazione; se voglio costruire una strada, devo conoscere i dislivelli e il tipo di terreno sul quale innalzare i pilastri per i cavalcavia; se devo distribuire volantini pubblicitari, la mappa dovrà dirmi come sono distribuite le persone, per poter scegliere i luoghi più affollati. Le omissioni sono frutto di una decisione che precede la rilevazione e che ne dà forma.

Lo stesso accade nella scienza. Ludovico Geymonat, nel suo bellissimo saggio su Galileo Galilei, ha dimostrato come l’emancipazione della fisica moderna rispetto a quella antica non consistesse nell’ampliamento dell’osservazione ma, al contrario, nella capacità di restringere il campo di osservazione a pochi dati controllabili, idealizzando il dominio, cioè trascurando dati «come se non esistessero».

Così Galilei ha individuato le leggi della dinamica, ammettendo l’assenza totale (e impossibile) dell’attrito e invece i fisici interessati alla termodinamica si sono concentrati sul ruolo dell’attrito nella dispersione del calore. Nessun dato va omesso per sua natura: l’omissione è un atto razionale che gli esseri umani si impongono per progredire nella rappresentazione della realtà e nella comprensione dei meccanismi che sottostanno ad essa.

Ma le omissioni sono sempre fatti volontari? È evidente che la risposta è negativa. Nel vostro percorso per arrivare qua, avete probabilmente aperto almeno una porta: l’immagine della porta è entrata nei vostri occhi ma di che colore era la maniglia? L’avete vista ma è svanita per sempre: è stata omessa dal vostro cervello a favore di contenuti rilevanti senza che voi l’abbiate fatto coscientemente. Questo accade sempre, in ogni istante.

Il linguaggio

Ma oltre a questi aspetti cognitivi ce n’è uno stupefacente e imprevisto che costruisce omissioni sistematiche: il linguaggio umano. E lo fa secondo almeno tre prospettive distinte.

È un luogo comune, non certo ingiustificato, che le lingue umane servano per mettere a fuoco il mondo, scomporlo ed eventualmente ricomporlo in nuovi e infiniti modi, secondo la fantasia. Il linguaggio è una mappa del mondo? Se sì, anche il linguaggio, come tutte le mappe possibili deve contenere omissioni, per essere esso stesso possibile.

Intanto, le parole: non possono esistere parole per tutte le parti del mondo; come una mappa non può ricoprire un territorio in maniera esatta, così le parole devono omettere alcune partizioni possibili della realtà. Nel descrivere una mano, ad esempio, ho parole per la mano, il palmo, il dorso, le dita, le falangi, le nocche, i polpastrelli, le unghie, ciascuna delle dita ma non ho parole che comprendano simultaneamente il pollice e l’indice.

Le parole, infatti, non si riferiscono a cose del mondo: sono istruzioni per pensare basate su criteri di convenienza cognitiva, non fisica. Così un fiume si chiama sempre nello stesso modo anche se fisicamente ogni istante l’acqua che osserviamo non è la stessa, come già ci avvertiva Eraclito.  Avessi parole per tutte le partizioni possibili del mondo avrei infinite parole e il linguaggio non sarebbe non dico utilizzabile ma nemmeno apprendibile.

Ma l’effetto più strabiliante del setaccio linguistico che crea omissioni necessarie si trova nella sintassi, cioè nella capacità di comporre infinite frasi a partire da un numero finito di parole, vera impronta digitale del linguaggio umano.

In questo caso, sempre senza che noi ce ne accorgiamo, la sintassi fornisce un setaccio tanto imprevisto quanto sorprendente che crea omissioni sistematiche in ogni istante e rende computabili le frasi. Ad esempio, se accosto un nome (Maria) e un verbo (correre) ottengo una frase dove il verbo si accorda con il nome adiacente: Maria corre; ma se faccio precedere il nome da altre parole, Maria può diventare completamente invisibile al verbo, pur essendogli sempre adiacente: gli amici di Maria corrono e non gli amici di Maria corre. Sono queste omissioni che rendono il linguaggio utilizzabile, limitandone la complessità che altrimenti diventerebbe ingestibile e, ancora una volta, apprendibile.

Le omissioni sono indispensabili per conoscere e per parlare, dunque per pensare. Senza le omissioni affogheremmo in un cervello che diventa una mappa impossibile del mondo. Ovviamente, questo solleva la domanda principale: da dove deriva il progetto sulla base del quale maturano questi processi cognitivi? Non è una domanda nuova, anzi, forse è la domanda epistemologica più antica di tutte: convenzione o natura? In questi tempi di incertezza è un privilegio poter dire che con esperimenti di tipo neuroscientifico siamo riusciti a ottenere una risposta credibile, anche se provvisoria, come tutte le risposte scientifiche: il linguaggio e le omissioni che lo rendono possibile non sono un progetto astratto e culturale che viene innestato in un corpo, o meglio in un cervello passivo. È il contrario: è il nostro cervello che genera questa architettura conoscitiva. È la carne che si è fatta verbo.

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