- La bella confusione, appena uscito con i Supercoralli di Einaudi, è l’alfa e l’omega della golosità. Ci sono due nomi che stimolano l’acquolina a chiunque su questo pianeta abbia un sentimento mitologico del cinema, e sono quelli di Federico Fellini e Luchino Visconti.
- Francesco Piccolo ha creato un suo portale nel multiverso del cinema al suo apogeo, in bilico verso il crepuscolo degli dei. E in questo multiverso si conquista il privilegio di camminare, come un temerario personaggio di Michael Crichton, a braccetto con i suoi due eroi, negli anni chiave che separano La strada e Senso da Otto e mezzo e Il Gattopardo.
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Lavorando da speleologo certosino, Francesco Piccolo ha confezionato un racconto a misura per il binge reader, il lettore a oltranza. Al capolinea, ti accorgi di aver assorbito una mole così pachidermica di informazioni e cortocircuiti subliminali che in quel portale di realtà parallela sei imprigionato per sempre.
Più o meno un’eternità fa, secondo le nostre misure correnti del time che goes by, e comunque nel secolo scorso, mi è capitato di comprare d’istinto un libro perché il titolo mi faceva simpatia. Era Scrivere è un tic: i segreti degli scrittori di Francesco Piccolo. Credevo di intravvedere in quelle prime quattro parole la disarmante autoconfessione di un tipo affetto da un peccato originale discretamente diffuso e universalmente negato: la tendenza alla grafomania.
È un peccato molto invidiabile, peraltro, e Piccolo ha sempre amabilmente ammesso questo malanno speciale, l’euforia di scrivere, nelle tante occasioni in cui il cinema, soprattutto, ha fatto incrociare le nostre strade. L’autoindulgenza sincera è una virtù, perciò la simpatia umana è rimasta.
Mi ha sorpreso ritrovarmelo tra le penne dei festival di Sanremo 2013 e 2014, dove il suo incontro con Claudia Cardinale ha fatto germogliare l’idea di quest’ultimo libro. Per uno che co-scrive praticamente tutto quello che vale la pena di scrivere (l’epopea de L’amica geniale, ma prima Il capitale umano e altri cinque film di Paolo Virzì, Il Caimano e Habemus papam con Nanni Moretti, Il traditore di Marco Bellocchio, tra gli altri), La bella confusione, appena uscito con i Supercoralli di Einaudi, è l’alfa e l’omega della golosità.
Ci sono due nomi che stimolano l’acquolina a chiunque su questo pianeta abbia un sentimento mitologico del cinema, e sono quelli di Federico Fellini e Luchino Visconti. Ora, immaginate un puzzle giant size, diciamo sui ventimila pezzi, un Giudizio universale di Michelangelo versione puzzle in cui tutti i tasselli combaciano alla perfezione. Per completarlo, hai bisogno che anche la più oscura e periferica delle anime raffigurate trovi il suo posto. E ognuna diventa quindi indispensabile, come le comparse, gli extra in inglese, in un film.
L’incastro millimetrico del Caso, di volontà, politica, capricci e coincidenze sagaci non appartiene alla vita reale, ma all’arte specifica della sceneggiatura. Il Piccolo scrittore ha creato un suo portale nel multiverso del cinema al suo apogeo, in bilico verso il crepuscolo degli dei.
E in questo multiverso si conquista il privilegio di camminare, come un temerario personaggio di Michael Crichton, a braccetto con i suoi due eroi, negli anni chiave che separano La strada e Senso da Otto e mezzo e Il Gattopardo. In pratica è chiaro che la Storia congiura perché Piccolo scriva questo libro.
Più è labirintico, il multiverso, più dà soddisfazione ai suoi fruitori. Lo sanno bene i Daniels (Dan Kwan e Daniel Scheinert) che da questo principio hanno ricavato le undici nomination all’Oscar per il loro Everything Everywhere All at Once:film definitivo sul multiverso, per l’appunto.
Dc versus Pci
Senza riassumere questa appassionata crime story cinefila, perché sarebbe un’impresa titanica quanto la sua doviziosamente puntellata costruzione, è capitale il j’accuse dell’autore contro le nefandezze storiche delle ideologie e il loro impatto artistico e commerciale.
L’indagine romanzata del libro data al 1954 l’inizio della Guerra fredda tra Visconti e Fellini (che comunque per Piccolo è il suo vero nume identitario). Alla Mostra di Venezia La strada e Senso diventano gli involontari campioni di un duello politico tra due culture in lotta: quella della Dc di Mario Scelba e quella del Pci di Togliatti.
Il Leone d’oro finirà per andare al più neutro Giulietta e Romeo di Renato Castellani, Fellini vincerà l’argento contro Visconti e volerà all’Oscar, il magnifico Senso verrà perfino processato e condannato per vilipendio alle forze armate. E passando al setaccio i fiumi d’inchiostro versati dalla nomenklatura togliattiana contro l’opera felliniana sponsorizzata dal cattolicesimo si prende atto, guidati da Piccolo – il Virgilio di questa Commedia poco divina – che in effetti di bischerate strumentali in quegli anni di scontro frontale se ne sono sparate parecchie.
È cosa fin troppo nota, poco più tardi, la bocciatura del “reazionario” capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa da parte di intellettuali eccelsi come Elio Vittorini, Leonardo Sciascia e Alberto Moravia. Sul periodo ho memorie indirette come quelle dell’autore, ma precise, per ragioni familiari: la lotta di classe passava necessariamente per l’egemonia culturale.
Per come vengono rappresentate però le dinamiche risultano smaller than life, immiserite quanto i dispetti, gli sgarbi, i veleni a distanza di questa coppia di giganti a confronto. Tra le molte riflessioni brillanti di Francesco Piccolo non trovo accenni al sistema di potere, tanto più opaco e insidioso, cui obbedisce l’egemonia culturale di oggi: non ne dipendono solo gloria e fortuna, anche la possibilità stessa di fare un film. Sono i clan, oggi, a schierare le truppe, non i partiti. E ai posteri non resteranno testi firmati, chiare assunzioni di responsabilità, fronti netti su cui ragionare. I nipotini di Piccolo non potranno scriverci libri.
Otto e mezzo e Il Gattopardo
Per i cinefili ostinati c’è un’abbondanza di epica sorniona, le digressioni che generano suspense come insegnava il vecchio Hitchcock, la sbrigativa liquidazione del Neorealismo con la sua zavorra di gusto e di impegno e tante curiosità inedite (almeno per me) come il sogno che accomunava Visconti e Fellini, ovvero Laurence Olivier protagonista, il cow boy del Texas che non piaceva a nessuno dei due, ovvero Burt Lancaster, e i patimenti di Claudia Cardinale costretta per simmetriche impuntature a scurire e schiarire i capelli nella spola tra i set contemporanei di Otto e mezzo e Il Gattopardo, in quel fatidico 1962.
Nel multiverso di “La bella confusione” tutto si crea e niente si distrugge, con buona pace della Legge di Lavoisier : ogni trascurabile rivolo, ogni comparsa, ogni extra ha rilevanza perchè è teleologicamente predestinato nel grande ordine delle cose. E come in ogni multiverso che si rispetti le identità sono fluide, si appannano fino a scomparire : è un’avventura in cui Piccolo pian piano diventa Fellini (per la stessa ragione per cui Flaubert diventava Madame Bovary) e Burt Lancaster, il cow boy imposto dagli americani, diventa Visconti.
Il binge reader di Piccolo
La bella confusione del titolo, in sostanza, è letterale, e tra l’altro era uno dei primi titoli suggeriti da Ennio Flaiano per Otto e mezzo. Lavorando da speleologo certosino, Francesco Piccolo ha confezionato un racconto a misura per il binge reader, il lettore a oltranza che è parente stretto del binge watcher insonne delle serie tv.
Al capolinea, ti accorgi di aver assorbito una mole così pachidermica di informazioni e cortocircuiti subliminali che in quel portale di realtà parallela sei imprigionato per sempre. E il capolinea, precisamente come per tutte le corse degli autobus, era fissato in partenza da un’autorità superiore. Leggi che «questi due film rappresentano non so se il punto più alto, ma di sicuro il punto di arrivo di venti anni di grande potenza del cinema italiano nel mondo; e quindi rappresentano anche, allo stesso tempo, il momento in cui questa lunga età d’oro del cinema italiano finisce».
Vent’anni appena, dal 1943 al 1963, giusto la data in cui con Il sorpasso nasce una nuova strada «che avanzerà in sintonia con la crisi del cinema italiano, sia dal punto di vista economico che della centralità nel mondo». È un bel de profundis su sessant’anni di produzione nazionale e seppellisce l’eterno tormentone che assilla i media e i profani (perché i diretti interessati se ne infischiano): è vivo o morto il made in Italy della settima arte? Forse per sfinimento, perché da bravo binge reader chiudi il libro che albeggia, decidi che magari ha ragione.
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