- Il primo segno inequivocabile che potrebbe buttare molto bene è il colore della giacca del commissario tecnico Roberto Mancini: è identico a quello della giacca di Bearzot nel Mundial ’82.
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Comincia il match, nel primo tempo si intravede la partita che sarà: tignosa: questi stanno in dieci rinchiusi nel caicco rettangolare della loro area di rigore. Noi siamo un po’ così, teniamo palla ma non buchiamo.
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Il Commissario tecnico cambia un po’ di metrosexual con altri metrosexual e poi è fatta, abbiamo giocato da dio, nell’olimpico pieno e abbiamo “asfaltato i turchi”; alla fine inquadrano Mattarella che applaude, e io mi chiedo come mai non l’abbiano inquadrato già prima il nostro condottiero.
Il primo segno inequivocabile che potrebbe buttare molto bene è il colore della giacca del commissario tecnico Roberto Mancini: è identico a quello della giacca di Bearzot nel Mundial ’82.
Ce lo sussurriamo con scaramanzia seduti a un tavolo di legno del bar di un paesotto del piacentino, nel quale, insieme ad amici fidati e de-facto co-autori di questo pezzo, sono attovagliato in attesa della partita.
Il rito collettivo esige pensiero collettivo, le frasi che uno inizia le finisce l’altro, gli ammicchi a esprimere condivisione nelle fasi più critiche del match sono una pratica inevitabile ed esoterica per chi non appartiene al gruppo – ma noi sappiamo che quella faccia vuol dire «dobbiamo verticalizzare di più», ordini eccessivi di bevande alcoliche durante l’intervallo, a stemperare la tensione di una partita che dominiamo – ma quando mai abbiamo dominato le partite così? – ma che fatichiamo a schiavardare a causa della ultra-difesa turca, asserragliata nel caicco rettangolare della loro area di rigore, con i loro giganti virilissimi a fronteggiare il nostro manipolo di sbarbati metrosexual che si passano la palla a velocita supersonica, senza tuttavia “nella prima frazione di gioco” concludere granché.
Sembra la “partita stregata” e il calcio, si sa, non è il regno delle probabilità ma dell’eccezione – o almeno così lo vive il tifoso; della paura costante di non farcela, di tornarsene a casa delusi, con le pive nel sacco e il ventre gonfio come un otre.
Ci siamo persi la cerimonia inaugurale, un altro amico ci segnala via whatsapp che a un certo punto c’era l’esercito schierato in campo, non controllo nemmeno, mi fido e il pensiero va al dittatore turco: è chiaramente una nostra strategia intimidatoria volta a utilizzare il suo linguaggio per metterlo in inferiorità psicologica.
In realtà quando convinco il boss del bar a cambiare canale (stanno guardando Nadal-Djokovic, dicono “aspettiamo la fine del game”, che dura tuttavia quaranta minuti buoni) mi trovo di fronte a Bocelli che canta qualcosa che non sento e a seguire vedo The Edge alla chitarra con uno sbarbato alla tastiera prima che appaia il faccione digitale di Bono che si frantuma in piccoli coriandoli-pixel mescolati a quelli della bandiere europee.
Boh, non so, chi se ne frega, che comincino a giocare, ed ecco che infatti entrano i giovani azzurri! (quasi tutti giovani, in verità, i nostri due centrali difensivi sono dei veterani con la scorza e mille partite addosso, scelta vincente per ora, anche se quelli non hanno mai ma proprio mai attaccato). Vedremo. Nel frattempo discutiamo sulle tutine: sono fighe? Sono brutte? Non si arriva a un accordo.
Finalmente alzano il volume e sento Caressa (che a me piace, lo dico subito) esordire col suo tipico tono epico ma che chissà come a lui riesce credibile: «Ripartiamo, siamo rimasti appesa ai balconi, forza azzurri», non ricordo bene, ma ho i brividi e siamo tutti «andiamo a Berlino» in questo momento. Purtroppo a distruggere il picco emotivo e il momentum collettivo c’è la clamorosa immagine della macchinina radiocomandata che porta il pallone all’arbitro; una scenetta da coppa nazionale per concessionarie di automobili e invece sono gli europei di calcio.
Un momento di eurotrash che viene fortunatamente subito assorbito da un suono che davvero fa felici (no ironia, tutto vero): i tifosi! C’è gente allo stadio, non c’è silenzio, ci sono i boati, le facce, i colori. Ecchecazzo, era ora, dai dai dai!
Comincia il match, nel primo tempo si intravede la partita che sarà: tignosa: questi stanno in dieci rinchiusi nel caicco rettangolare della loro area di rigore, pirati costretti sulla difensiva, virilissimi e giganti, si nota soprattutto un tale che sembra Conan il barbaro e che deve essere alto almeno tre metri, forse quattro e avrà sicuramente un pisello gigantesco di cui si narra da Bisanzio e Kyoto.
Noi siamo un po’ così, teniamo palla ma non buchiamo e Insigne fa incazzare tutti quando sbaglia un tiro a giro che noi italiani sappiamo essere semplice. Ma del resto, si mugugna alla tavolata, Insigne non è Rivera, non è Baggio, non è Del Piero e non è Totti. Tocca accontentarsi del collettivo e quel numero dieci sulle spalle della sua maglia azzurra suona un filo eccessivo.
Per esempio, dice Ciacco, altro fidato amico al mio fianco: «Te la vedi una serie di insigne? Non la faranno mai una serie su Insigne!». La prova definitiva: non è serializzabile! Il mio amico Bruno, più concentrato sugli aspetti tecnico-tattici, sostiene invece che non usiamo abbastanza le fasce. Forse ha ragione, anzi vedremo che ha ragione quando nel secondo tempo i giganti sul caicco se la buttano dentro da soli.
Autogol! Una figura dello spirito, pregna di significati e simbolismi, il momento nel quale l’individuo sfortunatissimo si eleva a protagonista del gioco collettivo con il più sciagurato dei gesti tecnici che tuttavia in questo caso era inevitabile, la palla gli arriva addosso veloce a portiere già scavalcato, quindi nulla da fare e peraltro se non fosse stato lì subito dietro di lui c’era Bonucci che avrebbe segnato facilmente. Speriamo solo che Erdogan non se la prenda troppo con lui. Certamente passerà una notte infame. Dispiace.
Al secondo gol Mancini si toglie la giacca di Bearzot, e a me viene in mente Pertini e penso che un altro mondo è possibile, un mondo nel quale almeno giochiamo a pallone, per davvero. Lo stanno facendo i ragazzi e infatti – come previsto dal sottoscritto – vinciamo poi facile 3-0.
Il Commissario tecnico cambia un po’ di metrosexual con altri metrosexual e fa entrare anche Bernardeschi, famoso perché indossa spesso la gonna ed è lì che si vede il tocco di genio a sfregio dei tuttofobi maschilisti erdoganiani: il sigillo definitivo; il giovane giocatore ossigenato che metterebbe la gonna al posto dei calzoncini (che peraltro sarebbe pure più comodo a pensarci ora, dovremmo pensarci per il futuro).
È fatta, abbiamo giocato da dio, nell’olimpico pieno e abbiamo “asfaltato i turchi”; alla fine inquadrano Mattarella che applaude, e io mi chiedo come mai non l’abbiano inquadrato già prima il nostro condottiero, di più! Avrebbero dovuto cogliere ogni sua reazione dopo un gol sbagliato, un rigore negato e ogni gol. Segnalo il tema formalmente alla regia internazionale: se c’è Mattarella va inquadrato SEMPRE.
Il finale è giubilo e solito senso di colpa preventivo all’italiana, purtroppo: «Non montiamoci la testa, non abbiamo vinto niente» eccetera. Ma no! Montiamoci subito la testa, godiamocela senza timori e andiamo avanti così, belli e possibilissimi, entrando in campo per giocare le partite come abbiamo visto di saper fare molto bene.
Forza Italia.
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