Il rassicurante “maestro degli italiani” per vent’anni ogni estate si avventurava in Sudamerica per educare in segreto piccoli gruppi di contadini. Rischiando gravi conseguenze. L’eredità di un intellettuale impegnato, riservato, sempre dalla parte dei più deboli, di cui ricorre il centenario dalla nascita. Nei giorni in cui Valditara reintroduce i giudizi sintetici alle elementari, risuonano le sue parole: «I ragazzi non vanno bollati»
Insegnare a leggere e a scrivere per combattere l’ingiustizia, risvegliare le coscienze, spezzare le catene. La lotta universale degli emarginati che si riscattano attraverso l’alfabetizzazione rivive nella storia di Pedro, protagonista de La luna nelle baracche, primo romanzo della “trilogia sudamericana” di Alberto Manzi. Lo ha ristampato a cinquant’anni dall’uscita, e a cento dalla nascita dell’autore, Edizioni di storia e letteratura.
Il libro riconsegna la forza della “pedagogia del fare” di Manzi, che qui si sostanzia in una pedagogia dello scrivere per i ragazzi una letteratura coraggiosa e militante, che stimola l’etica senza paternalismi.
Ma ancora più importante è rievocare questo capitolo poco conosciuto della vita di Alberto Manzi, ristabilendo la dimensione politica del “maestro degli italiani”, intellettuale engagé con riservatezza, tra i primissimi volti della tv, celebre senza l’ambizione di esserlo, scrittore prolifico e insegnante sempre dentro la scuola e contro ministri e provveditori. Scomodo in un senso che nell’era degli influencer indignati si fatica a mettere a fuoco. Scegliendo di stare scomodi, per cominciare, pur di tenere il punto sui principi.
Già la biografia di Alberto Manzi ne testimonia il valoroso attivismo verso gli svantaggiati, per i quali l’affrancamento coincide con lo sviluppo di una coscienza sociale, da costruire attraverso l’educazione e lo sviluppo del ragionamento. Saper leggere e scrivere per combattere i prevaricatori. La penna contro il bastone.
Maestro degli italiani
Dopo la guerra di Liberazione, in cui combatte volontario nel Battaglione San Marco, nel 1946 riceve il primo incarico di insegnante nel carcere minorile Aristide Gabelli di Roma. Qui dovrà vincere la disattenzione della classe di 90 detenuti mandando al tappeto il più agguerrito, come racconta a Roberto Farnè nell’intervista del 1997, rilasciata pochi mesi prima di morire (Non è mai troppo tardi. Testamento di un maestro, Edb, 1997). Dall’esperienza di educatore carcerario nasce il primo libro Grogh, storia di un castoro (Bompiani, 1950), la cui avventura ecologista contro la sopraffazione dell’uomo viene inventata in classe insieme ai detenuti. La consacrazione di scrittore arriva con Orzowei (Vallecchi, 1955), la storia del ragazzo bianco allevato da una tribù africana da cui sarà tratto il celebre sceneggiato.
Dal 1960 al 1968 c’è la pagina più nota, il programma tv Non è mai troppo tardi. Corso di istruzione popolare per il recupero dell'adulto analfabeta. Lezioni di italiano in diretta, con una didattica giocosa e coinvolgente. E un linguaggio televisivo tutto da inventare: durante il provino Manzi strappa il copione e comincia a disegnare sui fogli appesi al muro. Un’intuizione decisiva.
La trasmissione va in onda sull’unico canale, il Nazionale, poi passa sul Secondo. Per dire della novità che Manzi rappresenta, ma anche della sua notorietà, nonostante il televisore all’epoca lo possedessero in pochi. Per raggiungere più persone furono allestiti da nord a sud duemila “punti ascolto” con la presenza di tutor per assistere i tele-alunni negli esercizi da «provare e riprovare». Oggi ci si affligge sul senso perduto del servizio pubblico Rai; basti ricordare che in quegli anni un milione di adulti, secondo una stima, ottennero la licenza elementare grazie a quella trasmissione. Manzi, del resto, per il non trascurabile servizio alla nazione fu retribuito con il normale stipendio d’insegnante, oltre a un rimborso per le camicie che imbrattava in diretta col pennarello.
Dopo l’epopea di Non è mai troppo tardi, il maestro (che aveva due lauree in biologia e in pedagogia, ma rinunciò alla carriera accademica per “fare scuola”) tornerà a insegnare coi suoi metodi alternativi all’istituto Fratelli Bandiera di Roma, fino alla pensione nel 1988. In mezzo c’è una prolifica produzione di libri per ragazzi, collaborazioni in radio e tv, impegni internazionali come un progetto per l’alfabetizzazione dell’Argentina, nel 1981 una polemica feroce col ministero sul sistema di valutazione. In quel caso, si rifiutava di compilare le pagelle e gli sospesero lo stipendio. Curiosamente, la stessa discussione è in corso oggi: chi protesta, stavolta contro il ritorno ai giudizi sintetici alle elementari voluto dal ministro Valditara, usa le stesse parole di Manzi che respingeva l’idea di «bollare i ragazzi con un voto». Lui risolse con un timbro col quale per ogni alunno imprimeva la scritta: «Fa quel che può, quel che non può non fa». Morirà a Pitigliano (Grosseto) nel 1997, paese di cui nel frattempo è diventato sindaco e in cui inventa un parco archeologico per insegnare la storia degli etruschi, il museo Alberto Manzi.
Maestro dei sudamericani
Ma cosa c’entra in questa vicenda il Sudamerica de La luna nelle baracche (Salani, 1974) e il resto della “trilogia sudamericana” (El Loco, Salani 1979; E venne il sabato, Gorée 2005, postumo)?
Il libro racconta la storia di Pedro, bracciante del villaggio di Sant’Andrea, nella hacienda di Don José. Un campesino schiavizzato come gli altri, senonché un prete italiano gli ha insegnato a leggere e scrivere. Lui si ribella ai soprusi degli sgherri del padrone, smette di masticare le foglie di coca che lo aiuterebbero a sopportare le ore interminabili nei campi sotto al sole. Contravviene a tutte le regole per aiutare la sua comunità, rischiando sempre per primo. E lancia l’ultima sfida tentando di iscriversi al sindacato, con esiti tragici come spesso accade ai protagonisti manziani.
Ebbene, Alberto Manzi fu un assiduo frequentatore del Sudamerica. Ci andò una prima volta nel 1955 per studiare le formiche amazzoniche, con una borsa di studio dell’Università di Ginevra. Ci tornò per vent’anni, tutte le estati, sull’altipiano andino, tra l’Ecuador, il Perù e la Bolivia, per insegnare lo spagnolo ai braccianti. I campesinos non potevano iscriversi al sindacato perché analfabeti. E chi provava a istruirli rischiava la vita.
Il placido maestro della tv d’estate si avventurava in Sudamerica per educare in segreto piccoli gruppi di contadini. Negli anni organizza comitive di universitari che lo aiutano nell’impresa. Poi si appoggia ai salesiani, in particolare a don Giulio Pianello, la cui figura si ritrova nel prete che insegna a Pedro l’alfabeto.
Nella favola crudele de La luna nelle baracche, l’abnegazione del protagonista assume un significato particolare alla luce della biografia dell’autore. A Pedro viene affidata una speranza di riscatto che Manzi ha veramente provato a conquistare per i campesinos, con una tenacia pronta a sfidare i pericoli della clandestinità. Accusato di fomentare moti rivoluzionari, i visti d’ingresso gli vengono negati ma trova sempre il modo per partire, aiutare, insegnare. La missione di una vita.
Il centenario
E leggendo il romanzo ci si chiede: a che serve impedire ai lavoratori analfabeti di iscriversi a un sindacato? A perpetuare la schiavitù che garantisce le fortune dei padroni. Perciò l’esempio di Manzi risuona nelle campagne dell’Agro Pontino dove a giugno (ricordiamo?) ha perso la vita atrocemente il bracciante indiano Satnam Singh. Nei decreti flussi e nelle leggi sulla cittadinanza che fabbricano ogni anno più clandestini. Nella filiera agricola che si regge sulla disperazione di lavoratori indifesi e ricattabili. C’è l’Italia più spietata nelle pagine sudamericane di Manzi. Che per gli immigrati nel 1992 tornò in tv su Rai 3 con L'italiano per gli extracomunitari. Di quel programma si lamentò con desolazione, perché insufficiente e ostacolato.
Perciò il centenario è l’occasione di riscoprire il suo pensiero. Oltre alla ristampa de La luna nelle baracche, è uscito Ogni altro sono io. Alberto Manzi, maestro e scrittore umanista di Patrizia D’Antonio (Lit, 2024); e L'ABC di Alberto Manzi, maestro degli italiani di Tania Convertini (Anicia, 2024). Il centro Alberto Manzi di Bologna, che ne custodisce l’archivio, lo celebra con un programma di iniziative; e di Roberto Farné torna in libreria Alberto Manzi, l’avventura di un maestro (Bologna University Press). Gallucci ristampa Testa rossa (Bompiani, 1957) e Rizzoli una versione illustrata di Orzowei. Per ottobre il figlio Massimo Manzi annuncia la possibilità dell’uscita di un romanzo inedito, Einar, con Gallucci editore.
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