Il brutto di vivere in un acquario è che quando non ti senti a tuo agio in una situazione non te ne puoi andare. Perché l’acquario è la tua unica situazione.

Però c’è di peggio. Stare in una boccia per esempio. Stare in una boccia è tipico dei pesci rossi vinti al luna park. Loro sì che non se la passano bene. Trascorrono chissà quanto tempo in una bacinella dei panni, nutriti a lupini della bancarella accanto. Poi si ritrovano in una busta di plastica trasparente annodata in alto, zimbello dei passanti. E se riescono a uscire vivi da qualche travaso maldestro passano il resto della loro vita in una boccia, a fare da trofeo di uno strike di barattoli o di un centro al tirassegno. Umiliante, direi. Per non parlare delle piante finte. Un amico di un amico di mio cugino è morto trafitto da una clorofita di plastica.

Io e Bruno

Io invece sto in un acquario professionale, di quelli col neon, il ricircolo e le alghe vere. E quando morirò non mi sarà fatto il rito funebre nella tazza del cesso come a qualsiasi pesce rosso ma sarò cremato con un accendino bic. Comunque quel momento è ancora lontano. Perché la vita media di un pesce tropicale della mia specie in un acquario professionale – statistiche alla mano – è di cinque anni. Mentre in mare, in mare le cose sono più complicate. Almeno così mi ha detto chi c’è stato. Vabbè la libertà, gli ampi spazi, la natura incontaminata, ma il pericolo è sempre in agguato e puoi essere mangiato in ogni momento. Tutte le volte che rivedo Nemo mi viene un’ansia.

Certo io sto chiuso tra quattro mura di vetro a loro volta chiuse in quattro mura vere e proprie. Ma è un quarto piano luminosissimo e sono nutrito con mangime in compresse di prima qualità. La vita sociale coi miei simili è quel che è, buongiorno e buonasera quando ci si incrocia. Come nel film dei Monty Python, ma con le facce da pesce. Con Bruno mi trovo molto bene. Credo di essere il suo preferito. Stanotte ho fatto un sogno e gliel’ho raccontato. Ero in una busta di plastica sopra una macchina in corsa. Tipica situazione da pesce rosso, però ero io. Mi avevano dimenticato sul tetto, quei cretini che mi avevano vinto. Dentro di me pensavo che sarebbe stato meglio morire così, guardando il panorama della statale, piuttosto che vivere in una boccia e magari venire buttato nel cesso da quelli.

Ho spiegato a Bruno che secondo me il sogno era molto chiaro. Allora, il pesce, che poi sarei io, è un classico simbolo fallico. Poi c’è la paura di morire, quella ce l’abbiamo un po’ tutti, in secondo piano però rispetto al terrore della routine, che accomuna gli spiriti tormentati come me e Bruno. In sostanza sono un cazzo di pesce che preferisce un giorno da leone a cento da pecora. Bruno ha completamente smontato la mia interpretazione psicanalitica. Mi ha detto che era inutile scomodare Freud e che avevo solo sognato la scena di un film che avevamo visto.

Capita spesso di vedere dei film insieme, non al cinema s’intende. Ma lo schermo del computer di Bruno è un 28 pollici come si deve e fatte le dovute proporzioni per me equivale all’IMAX di un multisala. L’effetto dolby me lo sogno ma del resto sono un pesce e già è tanto se riesco a distinguere le parole dei dialoghi. Nella casa dove stavamo prima l’acquario era in salotto e di conseguenza anch’io. Mi sentivo parte di un quadro appeso da tanto tempo, al quale non si fa più caso. Qui da Lorenzo io e Bruno abbiamo una camera tutta per noi e io faccio una vita molto più interessante. E se lui passa la maggior parte del suo tempo in questa stanza vuol dire che fuori non è che poi si stia meglio. Insomma forse non mi perdo niente. Qui abbiamo tutto quello che ci serve. Conversazioni brillanti, confidenze profonde, scambi di opinioni, racconti di vita e un abbonamento a Mubi.

Quando Bruno non apprezza quello che dico ci rimango un po’ male ma riesco a dissimulare davanti a lui. Poi però quando vado nella mia grotta – una grotta piccola ma di vero scoglio marino – e non mi vede nessuno, allora piango. Anche Bruno piange spesso. La sua grotta della discrezione è questa stanza. Io sono l’unico spettatore dei suoi pianti. Sì, ci sarebbero anche i miei colleghi dell’acquario ma a loro il malessere di Bruno sembra non interessare affatto. A me invece dispiace per lui. Da quando Cecilia l’ha lasciato, si è sistemato nella camera degli ospiti di Lorenzo. Lui e la sua ragazza sono quasi sempre fuori per lavoro, così io e Bruno abbiamo la casa tutta per noi. In realtà non ne approfittiamo molto. Ci piace stare in questa stanza. Io ci sto sempre a dirla tutta, lui ogni tanto va in bagno, in cucina o da Ettore se ha voglia di mangiare in trattoria. Questa storia dell’ospitalità prolungata la vivo sulla mia pelle, perché sono un pesce e l’ospite è come il pesce. E ora che ci penso se l’ospite è come il pesce e Bruno è l’ospite io sono come Bruno. Però non puzzo. Faccio il bagno tutti i giorni, a tutte le ore, ogni santissimo minuto e fottutissimo secondo. Su Bruno non posso garantire ma secondo me non puzza neanche lui.

I modi di dire sui pesci talvolta sono davvero offensivi e spesso falsi ma non starò qui a fare degli esempi perché voglio raccontare due o tre cose che so di lei. E di Bruno.

La lei che non c’è più

Lei sarebbe Cecilia, una rossa di quelle belle e le rosse quando sono belle lasciano senza parole, soprattutto noi pesci. Cecilia e Bruno all’inizio erano felici. E anche molto disinibiti: infatti scopavano spesso in salotto senza pensare che lì c’eravamo tutti noi a guardare. Poi hanno smesso di farlo in salotto, forse per rispetto nei nostri confronti. Dopo hanno smesso proprio di farlo.

In salotto guardavano più che altro dei film. Purtroppo l’acquario era messo in modo da non farmi vedere niente. Ho cominciato ad appassionarmi al cinema da quando ci siamo trasferiti e Bruno ha iniziato a prendermi in considerazione. Però prima guardavo loro. Il mio film era quello. Guardare le loro fasi. Le loro fasi è anche un bel titolo per un film. La fase della curiosità, la fase dell’attenzione, la fase dell’indifferenza, la fase del disprezzo, la fase della tristezza.

Dovrei descriverle, vi aspettate questo ora da me, ma mi viene troppa malinconia. Tra le cose a cui ho assistito in prima persona (si dice così anche dei pesci? Noi pesci siamo persone?) c’è il momento in cui si sono lasciati per davvero. In salotto avvengono molte cose, a pensarci bene. La fase del disprezzo – urla, spintoni e qualche oggetto lanciato – aveva ormai lasciato il posto a quella della tristezza. Bruno e Cecilia si sono stretti forte e si sono detti delle cose, che per essere del tutto sincero, posso solo immaginare. Come in certi film brutti in cui a un certo punto i protagonisti, per fare i simpatici, osservano i passanti e si immaginano le loro conversazioni, doppiandoli ad alta voce. Questa però non è una commedia, io non voglio risultare simpatico a nessuno e quindi l’ipotesi di quella conversazione me la tengo per me.

Io non li sopporto quelli che cercano di stare simpatici a tutti. Come Sara, per esempio. È sempre allegra, fa le battute che non fanno ridere, cerca la complicità con il suo interlocutore e nella maggior parte dei casi la trova perché alla maggior parte della gente piace avere a che fare con persone di questo tipo: sorridenti, gioviali, ottimiste o peggio – in una sola parola di merda – solari. Io non sono così. Mi piace stare simpatico solo a quelli che mi stanno simpatici. E siccome quasi nessuno mi sta simpatico, è con quei pochi che concentro tutta la mia simpatia e do il massimo. Insomma Sara non la sopporto e non sono in alcun modo attratto da lei. Però devo ammettere che l’altra notte l’ho sognata. Era un sogno romantico, di quelli che ti svegli la mattina bagnato.

Dopo quell’ultimo abbraccio Cecilia se n’è andata e Bruno si è messo a guardare la tv. Poi lei è tornata e ce ne siamo andati noi, acquario compreso. Mi manca osservare Cecilia e i suoi movimenti in salotto. Sembrava che nuotasse, sgusciando con naturalezza tra il bordo del divano, il tavolino e la libreria, senza mai sbattere, consapevole di ogni centimetro di spazio a sua disposizione, con i capelli lunghi mossi come da una leggerissima corrente. Mi ignorava, non si fermava a guardarmi e non mi dava da mangiare. Però la amavo lo stesso. Era bello vederla passare. Era bello abitare con lei.

Ricordo quella volta in cui Bruno aveva portato a casa una grande testa di cernia che probabilmente gli aveva regalato il pescivendolo, una scena davvero raccapricciante dal mio punto di vista. Cecilia lo aveva accolto come se fosse tornato vittorioso da una battaglia con le spoglie del nemico in mano, e in effetti dalla vaschetta di polistirolo sgocciolava un liquido torbido e sanguinolento direttamente sul parquet. Li avevo visti allontanarsi contenti verso la cucina, incuranti di quella scia di macabre gocce appiccicose. Più tardi era arrivato alle mie narici – ebbene sì, le ho – il vapore di un brodo che a loro sarà sembrato delizioso mentre per me odorava solo di cadavere.

Ogni tanto cerco di tirare su Bruno e gli mento dicendo che ha tutta la vita davanti. Poi penso a me. Io ho tutta la vita dentro. Un acquario. Di prestigio.


Da Mangime in compresse per pesci tropicali per Racconti edizioni.

Il libro-acquario di un’esordiente da tenere d’occhio. Una raccolta di racconti che è un vero e proprio universo. Anzi, un acquario

i cui pesci si muovono dentro la stessa acqua, incrociando le proprie traiettorie oppure mancandosi di qualche pagina. Contiene tante storie diverse che si intersecano le une alle altre, si passano il testimone e costruiscono una intricata e avvincente mappa di personaggi e avvenimenti.

Francesco Pacifico ha scritto «È bello vedere la gente perbene soffocare e impazzire dentro questi acquari-racconti. C’è troppo caos nell’aria per continuare a leggere solo libri dalle storie lineari.»

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