- Il barone Kuki Shūzō fu un filosofo, poeta, erudito, dandy che girò l’Europa tra le due Guerre e conobbe tutti i grandi filosofi e scrittori dell’epoca, da Sartre a Heidegger, lasciando su di loro un’impronta indelebile.
- Dedicò un affascinante piccolo libro alla definizione dell’iki, quel misto di seduzione e rinuncia che definisce, a suo dire, l’essenza giapponese.
- Ma il Giappone si può conoscere anche percorrendo il pellegrinaggio dei trentatré templi come fece il grande scrittore olandese Cees Nooteboom.
Cos’è iki. È una donna che esce dall’acqua del bagno, o meglio: è iki il ricordo che aleggia della sua recente nudità. Iki sono le linee verticali nella decorazione di un tessuto, perché in esse «si avverte la leggerezza della pioggerellina e delle fronde di salice che cadono assecondando la gravità».
Ma attenzione, le righe orizzontali non sono iki: «nelle righe verticali si ha chiara coscienza dell’opposizione che separa due rette, mentre nelle righe orizzontali si ha coscienza distinta dell’ininterrotta successione di un’unica riga». È iki il trucco leggero, quello che le geishe e le prostitute di Edo giudicavano «delizioso». Sono iki le pettinature che trasgrediscono le regole, le acconciature non prescritte dalle rigide formalità sociali ufficiali, come la «crocchia a foglia di ginko» e la «crocchia da camerino di teatro», e sono iki i capelli «scarmigliati e annodati frettolosamente» e le «ciocche laterali ancora scomposte dalla notte».
Iki può essere una mano, anzi un singolo gesto. Del resto le mani hanno un profondo rapporto con la seduzione: «non sono affatto rari i casi in cui la maestria nell’incantare un uomo col gioco disinteressato dell’iki si riduce semplicemente a un atteggiarsi delle mani». Come nelle geishe delle stampe di Utamaru.
La struttura dell’iki
Sono solo alcuni degli esempi citati in un piccolo, prezioso libro che Adelphi riporterà in libreria il 19 luglio: La struttura dell’iki di Kuki Shūzō.
Ci sono libri che, all’interno della loro rotonda compiutezza, nascondono l’arte saggia e fragile della flânerie, quando non addirittura della sapienza.
Libri da leggersi dall’inizio alla fine, da destra a sinistra ma che, o prima o dopo, si possono anche percorrere zigzagando, saltando da una pagina all’altra, indugiando in soste e deviazioni, guidati solo dalla fantasia e dal caso: sicuri comunque di trovare un conforto o uno stupore in qualsiasi punto della volume gli occhi decidano di fermarsi.
Come se al loro interno nascondessero altri libri, più sfuggenti per i quali c’è il rischio di non scoprirli mai, o di non ritrovare più quello che si era scoperto una volta.
Non tutti i libri nascondono al loro interno questi ospiti come clandestini notturni, non è facile.
Vita di un dandy
Poi ci sono “libri possibili” che aleggiano intorno al libro: la vita di Kuki Shūzō meriterebbe un volume a parte. Quarto figlio del barone Kuki Ryūichi, severo samurai, potente ministro dell’educazione, consigliere dell’imperatore, e di sua moglie Hatsuko, Kuki Shūzō porta inscritto nel nome le ambiguità dei suoi natali: Shuzo significa “che forma un cerchio”, ma in congiunzione col cognome Kuki, scritto con gli ideogrammi “nove” e “diavoli”, «scatena inevitabilmente un sabba» come scrive la curatrice Giovanna Baccini.
Quando il padre era ancora un semplice sovrintendente ai beni culturali si legò a Okakura Kakuzō, studioso delle tradizioni giapponesi, tra i primi storici dell’arte del suo paese, coltissimo bohémien, poliglotta, autore del primo libro in inglese sulla cerimonia del té e sui legami con il buddismo zen, che gli faceva da interprete con le missioni americane.
Quando anni dopo Kuki Ryūichi era diventato ambasciatore negli Stati Uniti, Okakura Kakuzō andò a trovarlo. Qui Okakura conobbe la bella, annoiata e malinconica moglie dell’ambasciatore e vecchio amico: le lunghe passeggiate con quel colto e avventuroso giapponese alleviarono la nostalgia che la donna provava per il suo paese.
Al punto che qualche mese dopo fecero ritorno in patria insieme, contro la volontà del marito. Questi rifiutò di concedere il divorzio e impose alla donna di tornare sotto il tetto coniugale: ma Hatsuko era incinta. Forse lo era già prima di fuggire con Okakura, forse no: ma via via che Kuki Shūzō cresceva, cresceva in lui anche il dubbio. Quando la madre riuscì a fuggire di casa e si trasferì in un quartiere vicino alla casa dell’amante, Kuki Shūzō prese a frequentare quella figura che forse era il padre biologico, di certo divenne suo padre spirituale e maestro.
Ma la carriera politica del padre ufficiale anagrafico, e più in alto saliva più diventava inaccettabile agli occhi dei puritani compagni di partito e membri della corte imperiale quello strano ménage: gli imposero di dichiarare la moglie pazza e farla internare.
Morirà qualche anno dopo, sola, nel nel manicomio di Matsusawa. Dove i medici, «pur essendosi rifiutati di avallare quella diagnosi, l’avrebbero cortesemente ospitata fino al 20 novembre 1931, quando si sarebbe ricongiunta all’antico amante che già da diciott’anni la stava aspettando al cimitero di Somei».
Tra oriente e occidente
Nel frattempo il figlio, il talentuoso, sfuggente Kuki Shūzō si dedicò agli studi di filosofia. Viaggiò, conobbe la malinconia dei piroscafi come dice Flaubert, visse alcuni anni in Europa, tra Parigi, la Costa Azzurra e la Germania, conobbe tutti i grandi filosofi continentali, da Bergson al giovane Sartre, da Löwith a Martin Heidegger, tutti affascinati da questo nobile giapponese, poeta, filosofo, dandy, brillante e perennemente mosso da una sfuggente nostalgia. Heidegger restò così colpito dalle lunghe conversazione con lui, da fare di Kuki Shūzō l’ispirazione per il personaggio del Giapponese con cui intreccia un dialogo filosofico proprio sul concetto di iki (Da un colloquio in ascolto del linguaggio, raccolto in In cammino verso il linguaggio, Mursia).
La grazia della geisha
E così torniamo all’iki. All’inizio dell’Ottocento la parola iki veniva usata per definire l’estetica dei luoghi in cui si esercitava la prostituzione, e quindi un certo stile di comportamento tipico delle geisha. Venne poi impiegata in riferimento alla capacità di destreggiarsi emotivamente in situazioni di tensione, di padroneggiare, con sprezzatura, il conflitto tra dovere e sentimenti, spontaneità e artificio, raffinatezza estetica e etica. Per Kuki questa parola racchiude l’essenza stessa della cultura giapponese, e per questo è intraducibile.
Come un cristallo, compatto e unitario che però, a seconda di come lo si osserva mostra facce diverse, l’iki è l’unione di seduzione, energia spirituale e rinuncia, le tre virtù tradizionalmente espresse dalle figure totemiche del Giappone (la geisha, il samurai, il bonzo) e, designa, in quanto opposto di yabo, cioè la goffaggine, quell’insieme di sfumature di eleganza che in occidente chiamiamo grazia.
Per felice combinazione editoriale, in questi giorni in libreria è uscito un altro stupendo libro da affiancare a quello di Kuki Shūzō per lasciarsi invadere dallo spirito del Giappone.
Nel 2004 il grande scrittore olandese Cees Nooteboom intraprende uno dei più antichi, faticosi e importanti pellegrinaggi del Giappone, quello del Saigoku: la visita di trentatré templi, alcuni nell’area di Kyoto, altri su impervie montagne, uno addirittura su una piccola isola, ciascuno dedicato a una diversa manifestazione di Kannon, il bodhisattva della misericordia.
Lo accompagna la fotografa Simone Sassen, i cui splendidi scatti arricchiscono il volume, e una copia della Storia di Genji di Murasaki Shikibu, uno dei più grandi romanzi di tutti i tempi, scritto da una donna nell’XI secolo.
Il pellegrinaggio è un’occasione per lasciare che i pensieri e i sentimenti entrino in risonanza con il paesaggio e la scrittura assuma il ritmo del viandante: questo è l’effetto che dà la lettura di Saigoku di Nooteboom (Iperborea).
Invito al viaggio
Ora, è chiaro che questi libri non esauriscono né pretendono la conoscenza dello spirito o dell’essenza giapponese.
Non mettono nemmeno in dubbio che esista qualcosa di definibile come spirito o essenza, e non ci sia invece un costante rifrangersi di sguardi, un perenne lambire i confini dell’intraducibile e dell’incomunicabile.
«È di rugiada / è un mondo di rugiada / eppure, eppure» ha scritto Kobayashi Issa, l’ultimo grande maestro dello haiku.
Eppure, eppure a volte è anche giusto abbandonare la pretesa, questa sì molto occidentale, di possedere tutto, di capire tutto, di risolvere una volta per tutte la complessità di una cultura, e concedersi alla possibilità dell’illuminazione, o almeno dell’incontro con la bellezza.
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