La prima volta che lo aveva visto Vittoria aveva pensato che sembrava vivere in strada da poco tempo. La trapunta in cui stava avvolto non sembrava troppo sporca, i suoi vestiti nemmeno. Per deformazione professionale Vittoria, solo “Vi” per gli amici della moda che tendevano a risparmiare tempo e sillabe, non poteva fare a meno di scandagliare l’abbigliamento di chiunque, anche quello di un senzatetto: guanti senza dita molto Margiela, pantaloni con cavallo basso stile Marni, un maglione patchwork che, non fosse stato addosso a una persona abbastanza povera da chiedere l’elemosina per le strade, avrebbe giurato che fosse un Loewe. Una sciarpa a fantasia simil-Missoni, ai piedi una sola ciabatta da piscina su un calzino di spugna.

Ma a colpirla erano stati gli occhi, due fanali verde Bottega che avevano incrociato i suoi per una frazione di secondo mentre lei usciva di casa in una fredda mattina dell’anno nuovo. Quello sguardo, insieme alle spalle portentose che poteva intuire sotto la trapunta e a una faccia angelica che le ricordava quella di Kurt Cobain, le aveva scavato un buco nello stomaco, lasciandola stordita, turbata e eccitata per tutta la giornata. 

La profezia

Vittoria non aveva tempo per gli uomini, o almeno era questo che andava ripetendo da mesi, da quando la sua più recente relazione fallimentare si era conclusa come tutte le altre: lui era tornato dalla moglie e lei si era vestita bene ed era andata a piangere al bar con le sue amiche. Sono tutti stronzi, non abbiamo bisogno di loro, non ti merita, sei nel fiore degli anni, questa è l’ultima volta, eccetera eccetera. La magia dell’autosuggestione durava sempre per poco tempo, e passata la fase di diniego Vittoria tornava a sentirsi sola e a lamentarsi del fatto che nel suo mondo fossero tutti gay o sposati. E quindi, per esclusione, ci ricadeva.

Questa volta però aveva giurato a sé stessa che non avrebbe fatto lo stesso errore. Peraltro la sera di Capodanno una maga – una brava, le avevano assicurato, che si era fatta un nome predicendo il futuro alle feste di Arcore – le aveva annunciato un nuovo amore imminente, e i tarocchi parlavano chiaro: questo amore sarebbe arrivato da lontano e in maniera inaspettata e lei doveva essere pronta a riconoscerlo.

Così Vittoria aveva captato i segnali (lo sguardo conturbante), lo aveva riconosciuto (con lo striccone alla pancia), e aveva cominciato a fantasticare sul clochard dagli occhi verdi. Non si poteva dire che venisse proprio da lontano, considerato che viveva sul marciapiede sotto casa sua. Ma inaspettato era inaspettato e magari aveva viaggiato a lungo prima di scegliere il suo portone come dimora. Possibile fosse proprio lui il grande amore che le spettava in sorte?

Quando Vittoria rientrava a casa la sera lo trovava sempre addormentato e non poteva fare a meno di rimanerci male. Sbatteva i tacchi più forte, costeggiando il giaciglio di cartoni su cui lui stava imbozzolato, nella speranza di svegliarlo e cogliere un lampo di attrazione sul suo viso perfetto, ma il più delle volte quello non muoveva un muscolo o tuttalpiù sbuffava nel sonno. Vittoria lo superava stizzita e si rassegnava a rincasare, frustrata dalla situazione e indispettita dall’universo che le aveva messo davanti l’ennesima sfida sentimentale. Non aveva diritto a qualcosa di più semplice, dopo tutto questo tempo? Furibonda, si masturbava sotto la doccia pensando a lui, immaginando di lavargli con dolcezza i capelli biondi e ricoprire il suo corpo senz’altro scolpito di olio Nuxe. Nella sua fantasia, inebriato dal profumo di ylang ylang che Vittoria aveva letto essere tra i più afrodisiaci in natura, lui la possedeva con la forza di un animale selvatico, ma con la dolcezza e la riconoscenza di chi ha rischiato di morire assiderato per la strada. Nella sua fantasia, quell’uomo aveva bisogno di lei e le doveva la vita. 

Nessuna reazione

Per questo rimaneva altrettanto delusa dalle loro interazioni mattutine. Vittoria si svegliava ogni giorno piena di speranze, e queste si infrangevano sempre contro la totale indifferenza che lui le riservava. Più lui la ignorava, più lei si ostinava a scegliere vestiti succinti e inadeguati al mese di gennaio. Tacchi vertiginosi, gonne scosciate, camicie trasparenti in bella vista sotto il cappotto aperto.

Nulla sembrava smuoverlo, neanche le tette in faccia che lei gli propose una mattina chinandosi a lasciargli qualche monetina, con uno scollo che le arrivava all’ombelico. Vittoria gli aveva sorriso con malizia, il rossetto rosso che aveva scelto per il nome (“liquid sex”) la faceva sentire irresistibile, ma lui si era limitato a chinare la testa in segno di blanda gratitudine, neanche un’occhiata a tutto quel ben di dio. 

Vittoria tuttavia era sensibile a quel tipo di gioco. Se un uomo le sfuggiva questo non faceva che accendere in lei un fuoco ostinato. Lo sentiva in tutto il corpo, quel fremito. Non mi vuoi adesso, ma mi vorrai, non potrai vivere senza di me, ti mancherò come l’ossigeno, urlerai il mio nome al culmine del piacere, lo sussurrerai nel sonno accanto a tua moglie. Era più che una conquista, era una competizione con se stessa e tutte le donne del mondo, una questione di orgoglio, di vita o di morte. Il barbone bono sarebbe stato suo. 

Doveva ammettere di averlo sottovalutato, solo perché lui non aveva né una moglie né una casa non significava che sarebbe stato facile. Niente lo era per lei, ormai lo aveva capito, l’universo non smetteva di metterla alla prova. L’importante era continuare a interpretarne correttamente i messaggi. Il più esplicito di questi fu un cartello, comparso dal giorno alla notte accanto al letto di cartoni, scritto a pennarello con una grafia incerta: «Ho fame». Vittoria si sentì molto stupida per non aver saputo anticipare i bisogni del suo uomo, ma corse subito ai ripari.

Dopo una volata in casa, dove ne approfittò per immergersi in una nuova nube di ylang ylang, ridiscese tenendo tra le mani una grossa scatola verde pallido con rifiniture dorate, che infine porse a lui con fare solenne, fingendo di non accorgersi di quanto era salita la sua gonna mentre si chinava sulle ginocchia. «Ops» fece lei con un risolino, sistemandola ancora un po’ più su, a mostrare il pizzo delle calze autoreggenti. Lui, sempre imperturbabile, afferrò la scatola e la scosse, gli occhi verde Bottega pieni di perplessità. «No scuotere, mangiare» disse lei alzando un po’ troppo la voce e cercando subito di recuperare un tono più suadente. «Vedi?» continuò aprendo la scatola e rivelando un’architettura ordinata di macaron variopinti. «Ladurée. Buonissimi. Parigi. Mangiare. Gnam gnam» continuava a ripetere con gesti sempre più didascalici, mentre lui la guardava confuso e lei realizzava che non lo aveva mai sentito parlare, ed era quindi possibile che non conoscesse ancora l’italiano. Prima non aveva considerato la barriera linguistica, un ostacolo in più da superare in questa sfida cosmica, ma a dir la verità non la preoccupava più di tanto. Nella sua fantasia non parlavano neanche un po’.

Polaroid

La scatola di macaron non sembrò sortire effetti di alcun tipo nei giorni successivi, ma se non altro Vittoria la vide reinventata a mo’ di scarpa, il che le diede uno spunto per un nuovo regalo. «Che numero portare tu» gli chiese un giorno intercettandolo in piedi accanto a un cestino della spazzatura, occasione in cui Vittoria si rese conto che era anche molto alto, oltre che bellissimo e tenebroso. Era forse questo l’uomo perfetto?

Lui si limitò a ricambiare il suo sguardo con aria interrogativa che Vittoria però preferiva interpretare come una silenziosa pratica di seduzione. Mi vuole, glielo leggo negli occhi, pensava mordendosi il labbro inferiore e infilandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, sua classica mossa da rimorchio che definiva “della zoccola timida”. 

Dopo avergli portato in dono un paio di mocassini Sebago, di cui aveva dovuto indovinare la taglia e che erano stati accolti con lo stesso entusiasmo riservato ai macaron, Vittoria decise che era arrivato il momento di alzare la posta in gioco. Era un sabato sera della fashion week, ma per la prima volta da anni non gliene fregava niente. Era in fermento, ma per altri motivi.

Tornò a casa dall’ufficio fingendo un malessere improvviso con i colleghi che volevano trascinarla a una sfilata e si fece un lungo bagno caldo condito di vari sali e oli essenziali. Si prese il suo tempo per nutrire la pelle e i capelli, una manutenzione completa che Vittoria si concedeva raramente e che richiedeva almeno un paio d’ore, ma che la lasciava liscia come un delfino e arricchita di un paio di punti di autostima. Sentendosi bella e potente come una divinità arcaica, o come Beyoncé, accese una candela da 80 euro che profumava di caminetto acceso e si infilò un completo di Agent Provocateur che lasciava poco o nulla all’immaginazione.

Con la Polaroid che le aveva regalato un’amica per Natale si scattò una foto allo specchio, poi un’altra e un’altra ancora, in un crescendo pornografico che faticava a contenere. Non faceva sesso da mesi e la sola simulazione le dava alla testa e le procurava un piacere che in passato non aveva quasi mai provato nella concretezza dell’atto fisico. Così continuava a scattare pose sempre più spinte, il respiro affannoso, la nuca calda, il ventre contratto per l’eccitazione ma anche per sembrare più magra. 

Raccolse le foto più belle in una busta di carta pergamena e la chiuse con ceralacca e timbro personalizzato che si era fatta fare in un’antica tipografia di Brera. Spruzzò la carta con il suo profumo – ylang ylang, ça va sans dire – e dopo essersi rivestita sommariamente scese in strada a consegnare il suo regalo piccante all’uomo più irreprensibile con cui avesse mai avuto a che fare. Come al solito il maledetto dormiva della grossa, e Vittoria si trovò costretta a lasciargli la busta tra le coperte, pregustando il momento in cui l’avrebbe incontrato la mattina dopo, trovando finalmente nei suoi occhi la complicità che stava cercando da giorni. 

L’offensiva finale

E invece il giorno seguente non trovò nessuna complicità, solo il solito imperscrutabile verde Bottega. Vittoria cominciava a perdere la pazienza, nessun uomo l’aveva mai fatta lavorare tanto. A questo punto era semplicemente impossibile che lui non la desiderasse, le aveva viste quelle foto? Erano roba di qualità, c’era tutto un gioco di vedo-non-vedo per cui altri uomini avrebbero pagato e invece lui, impunito, se ne stava lì in silenzio con le spalle ricurve, ostentando quell’indifferenza che ormai Vittoria prendeva come una chiara dichiarazione di guerra. Ma quella sera avrebbe capitolato. 

Vittoria aveva usato quella mossa con tutti i suoi uomini, con un successo del 100 per cento. La trovava geniale, nella sua semplicità: si presentava alla loro porta – di casa, dell’ufficio, l’importante era coglierli di sorpresa – in Louboutin e pelliccia (trench, nei mesi più caldi) e con fare lascivo schiudeva il capospalla davanti al malcapitato, lasciando balenare il suo corpo nudo e ossessivamente depilato. Non c’era un uomo etero al mondo che l’avrebbe respinta, moglie o no, indigenza o meno. 

Così quella sera si preparò allo scacco matto e scese in strada avvolta nel visone di sua nonna. Lui dormiva, Vittoria non ne rimase sorpresa, ma dopo essersi accertata che non passasse nessuno, lo scrollò piano con la punta della décolléte, e poi più forte quando si rese conto che aveva il sonno pesante. Alla fine lui riemerse dal coma e si mise a sedere con un’espressione torva che Vittoria aveva intenzione di cancellargli dalla faccia per sempre rivelandogli le sue grazie. «Hey tu» gli disse a voce bassa, cercando di simulare una leggera raucedine che aveva sempre trovato molto sexy. «Cazzo vuoi, fammi dormire» rispose lui in perfetto italiano.

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