- Di guerra in guerra – Dal 1940 all’Ucraina invasa, l’ultimo libro di Edgar Morin, appare come una cura-choc contro l’assuefazione alla barbarie che ogni guerra, nell’èra dell’interdipendenza planetaria produce, in nome della civiltà e della sua vittoria
- Cent’anni di vita e lo sguardo di un bambino danno uno straordinario nitore alla fenomenologia della coscienza allucinata che ogni guerra ha prodotto, da entrambe le parti.
- Il messaggio è chiaro: non ignorare mai la parte di male che le tue scelte possono comportare. Fermiamoci prima che sia troppo tardi.
Pforzenheim, febbraio 1945. La Germania è già vinta. Ma la Royal Air Force, con un raid di 367 bombardieri, non rinuncia a radere al suolo questa cittadina tedesca, causando la morte di 17mila civili. Comincia così il piccolo straordinario libro di Edgar Morin, Di guerra in guerra – Dal 1940 all’Ucraina invasa, uscito in contemporanea a Parigi e a Milano (Cortina) in questi giorni.
Comincia con il moto d’orrore che il 24enne tenente Edgar Nahoum, già entrato nella resistenza a ventun anni (col nome clandestino, che gli resterà come nom de plume, di Edgar Morin) reprimerà rapidamente, ci racconta, dicendosi: «È la guerra». Nello stesso mese 1.300 bombardieri angloamericani annientano la città d’arte demilitarizzata di Dresda, facendo più di 300mila morti.
E dovevano ancora venire le centinaia di migliaia di morti civili dell’atomica, a Hiroshima e Nagasaki, nell’agosto. Il 60 per cento dei civili normanni morti durante lo sbarco in Normandia fu dovuto ai bombardamenti dei liberatori. Questa breve sequenza iniziale dà il tema di tutto il piccolo libro, che è una cura-choc contro la rimozione della barbarie che accettammo fosse scatenata in nome e per conto della civiltà e della democrazia, come di nuovo facciamo oggi. Tanto più indicibile ed estrema fu la barbarie rimossa dalla luce accecante della giusta causa.
Uno spiraglio d’aria pura
Pur di aprire uno spiraglio d’aria pura nel chiuso delle nostre coscienze inchiavardate, Morin si accusa, facendo torto a se stesso: «È molto più tardi, dopo l’invasione dell’Ucraina, che è riemersa in me la coscienza della barbarie dei bombardamenti compiuti in nome della civiltà contro la barbarie nazista». Non è vero, lo sentì fin d’allora. Ma ci voleva un uomo di 102 anni a dirci che siamo ancora in tempo a svegliarci.
Un uomo di cent’anni può parlare con la voce di un bambino. Fu un regime che era tessuto di menzogne, di gulag e di assassinii, che contribuì in modo essenziale a liberare l’Europa dal nazismo. Furono la prima disfatta tedesca davanti a Mosca e l’entrata in guerra degli Stati Uniti, l’una e l’altra nel dicembre del 1941, a indurre Hitler nel gennaio del 1942 alla decisione di sterminare tutti gli ebrei del continente. Fu un paese il cui solo nome evoca in noi le idee di libertà, eguaglianza e fraternità, a reprimere nel sangue di uno dei più grandi massacri della storia l’aspirazione alla libertà del popolo algerino. È come se, guardando al nostro passato, potessimo verificare da ogni punto di vista la verità di ciò che Vasilij Grossman disse di Stalingrado: che fu «la più grande vittoria e la più grande sconfitta dell’umanità».
Figure della coscienza bellica
La voce del centenario e del bambino è la voce della fenomenologia: capace di far rivivere ogni cosa passata nella pienezza sensibile in cui fu vissuta, e insieme dotata della vista lunga, che afferra l’insieme e il disegno del tempo, le sue figure invarianti. Questa fenomenologia delle figure della guerra – della sua allucinata eppure apodittica coscienza – è tanto evidente quanto disarmante, come se il bambino che è in noi, in cui già Platone salutava il filosofo, sciogliesse finalmente la paura nelle parole più semplici, che mostrano il re nudo, e la sua vergogna, e la nostra. L’isteria di guerra, anzitutto. Questa «conversione di un sintomo immaginario in sintomo della realtà».
È quella che produce la totale demonizzazione del nemico, versando sul fuoco tanta benzina d’odio da bruciare le relazioni future di intere generazioni, censurare scrittori, musicisti, sportivi solo per la loro nazionalità, e infine rompere amicizie che sembravano profonde, e si ritraggono di fronte all’incomprensibile strepito delle fanfare. La menzogna di guerra, peggiore ancora se fabbricata per giustificare le guerre. La “spionite”, ovvero la credenza che il nostro campo sia infestato da spie al soldo del nemico – e ne sappiamo qualcosa dopo aver lasciato che fosse arruolato fra i putiniani chiunque abbia osato alzare il sopracciglio di un dubbio. La criminalizzazione, che è il modo in cui il fanatismo uccide la politica trasformandola in guerra, o prolungando la guerra in raffiche di menzogna e cimiteri di silenzio omertoso, come sappiamo dalla guerra fredda.
La radicalizzazione, che nel piccolo diventa distruzione dei tessuti familiari e affettivi – come avvenne con la guerra di Jugoslavia nel 1991, come avviene anche oggi ai confini fra Russia e Ucraina – e nel grande diventa escalation, come quella che nel 1945, con la rivelazione del potere di autodistruzione ormai in mano all’uomo, mutò radicalmente e una volta per tutte gli antichi argomenti in difesa della guerra giusta. Com’è strano che tante brillanti intelligenze non se ne siano accorte. E che tanti gazzettieri abbiano dimenticato quell’evidenza del male maggiore – la distruzione della civiltà umana sulla terra – che aveva portato finalmente nel secolo scorso a due conquiste morali che potevamo credere irreversibili.
Una, è l’architrave normativa della cosiddetta comunità internazionale, incarnata in numerose istituzioni eppure tanto brutalmente disattesa nella realtà: la Dichiarazione Universale dei diritti umani. L’altra è quella che Aldo Capitini, il nostro grande teorico della nonviolenza, chiamò la dismissione dei nazionalismi. Entrambe le conquiste riducono enormemente la legittimità della guerra come metodo di risoluzione delle controversie internazionali, prospettando quelle cessioni di sovranità a vantaggio di ampie democrazie sovranazionali che in parte l’Unione europea ha realizzato.
Le responsabilità di Ue e Usa
All’Unione europea del resto Morin non risparmia l’accusa di non aver voluto impedire il disastro della guerra civile jugoslava, come non risparmia a Israele quella di aver spazzato via, proclamandosi Stato ebraico, la soluzione di uno stato democratico binazionale, mentre distruggeva quella di due stati attraverso la continua espansione degli insediamenti coloniali.
E non è tenero, il gran vecchio, con «i nostri media», concentrati sull’imperialismo della Grande Russia e «muti sull’altro imperialismo che interviene ovunque sul globo contravvenendo spesso, come la Russia in Ucraina, alle convenzioni internazionali». Non stupisce che Morin lasci troneggiare sulla fine del libro la figura di Mikhail Gorbaciov, «eroe dell’umanità che fece cessare la Guerra fredda in nome di quella ‘casa comune’ che è la terra per tutti gli umani».
Infine, dopo aver distinto tre guerre in una (la continuazione della guerra interna fra potere ucraino e provincia separatista, la guerra russo-ucraina, e «una guerra politico-economica internazionalizzata antirussa dell’occidente animata dagli Stati Uniti»), Morin si sorprende che «si levino così poche voci in favore della pace nelle nazioni più esposte. È sorprendente vedere così poca coscienza e così poca volontà in Europa…. nel promuovere una politica di pace».
Se cerchi il vero, cercalo tutto
Tutta la vita umana è prendere posizione, aveva scritto Edmund Husserl introducendo la distinzione fra prendere partito, o schierarsi, e consentire a ciò che si ha ragione di credere vero, fino a prova contraria e indipendentemente da quello che ne pensano i sodali. Morin non porta in dote al lettore la sterminata bibliografia che pure ha alle spalle (un’ottantina di libri tradotti in una trentina di lingue), ma solo un secolo di vita vissuta prendendo posizioni che il tempo ha provato giuste e ben fondate, tutte. Vita d’azione nella sua giovinezza partigiana e nella sua maturità di pubblico intellettuale, certo, ma soprattutto vita di ricerca, infinita.
In fondo il pensiero della complessità, nonostante i sei volumi de Il metodo, in cui si dispiega a partire dalla natura fino all’etica, si distingue per la più umanistica delle aspirazioni: se cerchi il vero, cercalo tutto, anche se sai che ne conoscerai, se va bene, una piccola parte. Nella storia politica del mondo, che è “planetaria” fin dai primordi del XX secolo, questo vuol dire: non ignorare mai le ragioni di nessuna parte, e soprattutto non ignorare mai la parte di male che le tue scelte possono comportare. E il messaggio è chiaro: «Più la guerra si aggrava, più la pace è difficile e più è urgente».
Di guerra in guerra. Dal 1940 all’Ucraina invasa (Cortina 2023, pp. 112, euro 12) è un libro di Edgar Morin
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