I cestisti Usa stanno per farsi sfuggire per il sesto anno di fila il titolo di mvp in NBA. Nel baseball il migliore è un giapponese, nel tennis non hanno un numero 1 da vent’anni, la crisi si è estesa alla corona dei massimi nella boxe e ai 100 metri olimpici. Inoltre il cinema non conquista Cannes dal 2011, il paese è fuori dai primi 20 nella classifica dei più felici, la narrativa ripiega su ricordo e nostalgia
Gli Stati Uniti, che hanno la ricerca della felicità come diritto costituzionale, per la prima volta nel decennio di storia del World Happiness Report, non si sono classificati tra i primi 20 paesi più felici del mondo. Segnando la perdita di una egemonia e l’arresto del perseguimento della felicità, oltre un paradosso. Vince la Finlandia per il settimo anno consecutivo. E gli Usa scivolano al ventitreesimo posto. Ma c’è un problema di scala oppure ha ragione l’ex cestista, ora scrittore e attivista, Kareem Abdul-Jabbar che dall’alto dei suoi due metri e diciotto ha commentato il fatto con una analisi partendo da che cosa è la felicità per lui: «la differenza tra ciò che pensiamo che dovrebbe essere la nostra vita e come la percepiamo», poi è passato a cosa può causare insoddisfazione: «dalla cultura pop ai social media ai coetanei», per arrivare alla conclusione che gli americani desiderano «ardentemente ciò che in realtà non esiste».
Dove stanno arretrando
Ha diviso la felicità per due grandi fasce: anziani e giovani, deducendo che per gli anziani la felicità si basa: «sulla soddisfazione per ciò che è stata la loro vita e su una certa stabilità nel modo in cui vedono il resto della loro vita. Se hanno una famiglia che amano e un gruppo di amici con cui socializzano, è praticamente tutto ciò di cui hanno bisogno: sono felici». E per i giovani: «si basa sulla speranza per il futuro e questa speranza dipende dalla loro fede nel presente». E dopo si è lanciato in un elenco riassumibile in Donald Trump: idee, opere, omissioni, assalti, destabilizzazioni; dimenticandosi gli altri problemi riassumibili in: Joe Biden e le sue guerre.
Ma Jabbar ci serve per capire se la perdita del primato della felicità ha dei riscontri sportivi, perché lo sport regala speranza, alimenta sogni, insomma, aiuta a non morire o almeno a provarci. Partendo dal basket: se i tre giocatori candidati al titolo di migliore in NBA non sono statunitensi, una crepa c’è. Infatti troviamo: Nikola Jokic, il centro serbo dei Denver Nuggets, Luka Doncic, l’esterno sloveno dei Denver Nuggets, e Shai Gilgeous-Alexander, guardia canadese degli Oklahoma City Thunder. Come nel baseball troviamo tra i favoriti: il giapponese Shōhei Ōtani, lanciatore, esterno e battitore designato dei Los Angeles Dodgers e il venezuelano Ronald Acuña Jr. esterno sinistro per gli Atlanta Braves; entrambi hanno vinto anche nel 2023. E se passiamo al tennis il primo americano che si incontra scorrendo la classifica ATP è al tredicesimo posto: Taylor Fritz, e per trovarne uno a guidarla bisogna andare al 2003-2004 con Andy Roddick e prima Andre Agassi. Va meglio nella classifica WTA con Coco Gauff terza.
Ma se passiamo alle Olimpiadi con gli uomini e le donne che vincono la medaglia d’oro nei cento metri dobbiamo andare ad Atene 2004 per trovare Justin Gatlin e ad Atlanta 1996 per trovare Gail Devers davanti a tutti e tutte nella gara regina delle Olimpiadi, in realtà vinsero anche in quelle dopo, a Sydney 2000, ma poi Marion Jones fu squalificata per doping e le tolsero l’oro. Va ancora bene nei 100 del nuoto stile libero con Caeleb Dressel a Tokyo 2020, mentre per le nuotatrici c’è Simone Manuel, ma a Rio 2016. Va male nei pesi massimi di boxe, sono lontani i tempi in cui un pugno di Muhammad Ali procurava turbamenti politici, portava la gente in strada o generava cinema naturale, l’ultimo campione americano è stato Trevor Bryan tra il 2021 e il 2022, e per trovarne uno davvero famoso bisogna andare a Shannon Briggs, 2007. Per scoprire che il campione dei pesi massimi di boxe non è più il maggiore poeta americano come diceva Bob Dylan, nel senso che non condiziona l’immaginario collettivo e non finisce nelle canzoni e nei romanzi.
Che succede al cinema
Naturalmente hanno un mucchio di atleti che primeggiano in tanti sport, e in questi ne hanno molti che sono secondi, terzi, quinti, e conservano ragazzi americani in testa nella National Football League, dove la crisi non si sente, se di crisi si tratta. La decadenza invece c’è, e non riguarda solo la sempre più appannata politica estera che trova nelle gaffe del suo frontman, Joe Biden, che confonde geografia, nomi, storie, paesi, ma una grandissima proiezione verso il passato, specialmente nell’arte: l’attenzione non è rivolta soltanto al futuro, tra progettualità, sperimentazione e linguaggi, ma per la prima volta negli Stati Uniti diventa prossima la confidenza con il concetto di nostalgia, il desiderio di restare bloccati in un’epoca d’oro – come raccontava Woody Allen nel suo Midnight in Paris. Da Quentin Tarantino con il saggio Cinema Speculation e il suo ultimo film C'era una volta a... Hollywood a Bret Easton Ellis e il suo ritorno al romanzo con Le schegge, registi e scrittori hanno piena consapevolezza dell’inevitabile: anche gli Stati Uniti possono invecchiare.
Anche Martin Scorsese invecchia e prossimamente racconterà la vita di Frank Sinatra, non quella di Kurt Cobain. Tanto che il loro racconto di sé o del mondo non vince nel maggior festival europeo, quello di Cannes, dal 2011 con The Tree of Life, regia dell’americanissimo Terrence Malick. E se anche due dei maggiori scrittori americani, Paul Auster e Jonathan Franzen, si concentrano sul ricordo delle cose essenziali e la rifondazione dei propri miti, scavando nel passato, con Baumgartner e Crossroads la mappa si allarga. Aggiungiamo che da poco nei cinema c’è Civil War scritto e diretto da Alex Garland, un film su una guerra civile che sconvolge gli Stati Uniti, allargando l’assalto al Campidoglio che i sostenitori di Donald Trump attuarono nel 2021 fino alle secessioni.
La narrativa
La ricerca della felicità scivola giù, le preoccupazioni salgono, e gli americani non si distraggono più come un tempo. Solo “lo straniero” Salman Rushdie sembra completamente immune da questa decadenza: per lo scrittore indiano, al pari dell'amico Martin Amis – scrittore inglese –, l'America e New York continuano a essere il sinonimo di una ritrovata libertà e una prospettiva per il futuro. Al netto delle ritorsioni e dei danni, quindici coltellate in ventisette secondi, come racconta nel recente memoir Coltello. Meditazioni dopo un tentato assassinio. Viene da chiedersi se occorre aspettare sempre uno “straniero” per poter apprezzare quello che in patria non si riesce più a vedere oppure gli appartamenti di Rushdie sono troppo sopraelevati dalla realtà del marciapiede per poter capire come stanno realmente le cose.
Non resta che fare come Michael Moore in Where to Invade Next: andare in Finlandia a cercare di capire come perseguire e bene la felicità perduta, importando il metodo dopo aver esportato tanta democrazia sotto forma di bombe, o partendo da quello che scrive Jabbar alla fine della sua analisi che sembra riportarlo al campo di basket: «La felicità è lavorare con gli altri per rendere migliore la vita di tutti». E agli Stati Uniti servono nuovi schemi per questo vecchio gioco. Per ritrovare la «gente felice e lucente che si tiene per mano» che cantava Michael Stipe, perché come aveva scoperto Christopher McCandless/ Alexander Supertramp: «La felicità è autentica solo se condivisa». E senza quotarla a Wall Street.
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