Il messaggio dei pubblicitari è sempre e soltanto uno: puoi realizzare tutto, puoi essere quello che vuoi. Per vincere. Ma è la grandezza della sconfitta che ci insegna altro. A Castelfranco Emilia hanno dedicato un festival a chi perde. Perché perdere è la cosa più frequente e ci riguarda tutti
Brindiamo al sapore della sconfitta, dice a un certo punto Matt Damon nei panni di François Pienaar, «ricordatevelo e promettete a voi stessi di non assaporarlo mai più». È una scena madre: la nazionale sudafricana di rugby alla fine vincerà la Coppa del Mondo del 1995 contro tutti i pronostici.
Il film è “Invictus”, l’Invincibile, titolo che gioca con la poesia vittoriana del poeta britannico Henley e ammicca al senso di potenza dentro ognuno di noi. «Io sono il padrone del mio destino: io sono il capitano della mia anima».
Al netto della bellezza (e di altri messaggi profondi) del lungometraggio di Clint Eastwood, la retorica gronda da ogni fotogramma. L’impresa sportiva (certo, reale) è in fondo la scusa per dirci: tutto si può, basta volerlo. Un claim che da anni si è insinuato nelle nostre menti. Attraverso la pubblicità, per mezzo dello stereotipo della resilienza, con l’enfasi del successo a tutti i costi.
Dentro questa società dello spettacolo, c’è ancora spazio per la sconfitta? Perdere è un’ipotesi contemplata? Fabio Cola, psicologo, consulente e formatore, spiega che tutte le volte che incontriamo una sconfitta «accade qualcosa di utile e interessante». L’impatto è sul rapporto tra aspettativa e realtà. Un rapporto, spiega Cola, «fortemente compromesso in questi anni» perché «le persone hanno aspettative idealizzate».
Gli slogan a senso unico
«Immagina, puoi». «Supera i tuoi limiti». «Nessuno può fermarti». «Niente è impossibile». Il messaggio è sempre e soltanto uno: puoi realizzare tutto, puoi essere quello che vuoi. Per vincere. Ma è la grandezza della sconfitta che ci insegna altro. Prendi un adolescente, va avanti Cola, «il sé è staccato da quello reale, c’è sempre un mondo di riferimento quasi impossibili, basato su aspettative altissime. Non c’è più nessuno che dice vorrei fare una cosa semplice».
E questo aspetto si lega alla sconfitta, cioè a un nostro limite. «Il limite estremo è la morte, le persone non vogliono più fare i conti con la morte. Non c’è più nessuno che tiene davvero in considerazione la finitezza. Ma se noi qualifichiamo il limite, quello che facciamo acquista un nuovo senso e una sensibilità diversa». In questa chiave perdere assume una dimensione nuova, utile, differente.
La sconfitta, aggiunge ancora Cola, «ti riporta al senso del valore del limite, ti porta una consapevolezza di finitezza. La sconfitta è l’incontro con il limite, che ti permette di rielaborare e far nascere modi di percepirsi dentro la realtà». Lo sport, che è tecnica applicata all’errore, aiuta a comprendere meglio il valore di questa finitezza. Roger Federer ha vinto tutto. Ma ha anche perso 60 finali. E lo stesso è successo a Rafa Nadal: vittorie indelebili, ma anche 43 sconfitte in una partita per un titolo.
Chi arriva a vincere l’Olimpiade ha prima ingoiato insuccessi e dolore. Prova ne é Gianmarco Tamberi, campione del salto in alto, leggenda azzurra, con una storia di dolore alle spalle. Il successo è dunque una scintilla accesa dal saper perdere. Certe vittorie, poi, «arrivano all’improvviso», dice Valerio Iafrate, autore di L’ultimo tiro. Storie di chi non si è arreso a un destino di sconfitta.
«Io e Nicoletta Romanazzi abbiamo puntato a mettere in luce questo: quanto è formativo perdere prima di poter vincere dopo (forse)». Nel libro ci sono le storie di sport: da Roberta Vinci (che batté Serena Williams a NY e poi quasi si scusò con il pubblico) a Marcell Jacobs (oro olimpico nei 100 piani a Tokyo 2021), insomma outsider che hanno saputo emergere dalle nebbie dell’insuccesso.
In un’intervista al quotidiano ceco Ihned, Federer ha dichiarato che da giovane sentiva un «bisogno enorme di vincere. Era la cosa più importante al mondo per me». Poi le cose sono cambiate, la sconfitta è diventata parte del percorso, e questo, oltre all’immenso talento, è servito ad acquisire una diversa consapevolezza di sé. «Ho capito che se perdi un punto, un game, un set e talvolta la partita, non succede niente. Le vere leggende sanno come affrontare le sconfitte ancor meglio delle vittorie».
Tutti perdono
Angelo Lorenzetti, coach del volley di casa nostra, uno dei vincenti per antonomasia, dice che «ogni cosa va analizzata nel profondo: ci sono vittorie e vittorie, sconfitte e sconfitte. Bisogna vedere quanto sono vicine o lontano al tuo limite».
Ma è proprio in quell’analizzare, in quel «ragionare» come dice Lorenzetti, che sta la differenza. «Le sconfitte fanno male. E nello stare male si aprono nuove opportunità. Quando fui esonerato da Modena fu un momento molto particolare per me, molto pesante. Coinvolgeva non solo l’essere allenatore, ma anche l’essere persona».
Lorenzetti, 59 anni, quattro campionati italiani di Serie A, un campionato del mondo e una coppa Cev: traguardi raggiunti passando dalla casella più dolorosa, quella di una sconfitta. «Bisogna analizzare bene anche le parole. Dopo una vittoria, che sia scontata o incredibile, bisogna imparare a filtrare, a capire, a prendere con consapevolezza ogni aspetto.
Questo serve perché prima o dopo una sconfitta arriverà sempre». Tutti perdono nella realtà. A scuola, sul lavoro, nelle piccole cose della quotidianità. Lo sport aiuta a focalizzare, a materializzare l’attimo dell’insuccesso. Riguarda chi perde, ma anche chi osserva.
«Nello sport - va avanti Lorenzetti - c’è un’intransigenza che eccita. Da un lato è un fatto positivo: di una sconfitta ne parlano tutti. Ma dall’altro incide sul lavoro e sulle aspettative». Quando Domenico Fioravanti vinse gli ori ai Giochi di Sydney, nel 2000, il mondo intero si fermò ad applaudirlo.
Lo premiò il presidente della Repubblica, al suo paese il sindaco organizzò una festa. Un anno più tardi arrivò secondo ai Mondiali di Fukuoka. Niente fiori, né banda. «Mi sono sentito come uno sconfitto. Ma ero sempre secondo al mondo».
Il festival
A colmare questo gap tra il tutto e il niente, a rendere accettabile una sconfitta e a estrapolarne il significato profondo ci stanno provando quelli del Festival della Sconfitta. Federico Ferrari, organizzatore e vulcano di idee (vedi: Ennesimo Film Festival), racconta che «l’idea è nata dalla quotidianità».
E ancora: «Quando uno arriva all’apice lo far per un determinato periodo di tempo. Non sempre e per sempre. Nella vita di tutti i giorni viviamo più sconfitte, e abbiamo bisogno di interpellarle per capire come andare avanti, usarle come trampolino di lancio per un futuro successo o una capacità di convivenza».
Da oggi fino a domenica, l’evento è organizzato dal Comune di Castelfranco Emilia. «Ecco, arriva il festival di quelli che perdono, ci hanno detto. Perdere non piace a nessuno, ma la sconfitta è un elemento centrale delle nostre vite. La incontriamo in tanti ambiti».
Leonardo Pastore, assessore della cittadina modenese, è stato uno dei promotori dell’iniziativa. Un evento che si tiene da tre anni e che, sempre di più, è rivolto ai giovani. «Le riflessioni sulla sconfitta vanno fatte con i ragazzi e le ragazze: l’impegno ci deve essere sempre, ma il raggiungimento dell’obiettivo va tarato». La partecipazione da parte dei ragazzi è totale.
«Ci dicono: In questi incontri c’è il mondo vero, reale. Non solo successi e cose belle, ma la realtà dei fatti», spiega ancora Ferrari. «Vogliamo consolidare i percorsi nelle scuole, crediamo ci sia bisogno di fare questo tipo di riflessioni». Anche perdere è una questione di metodo.
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