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Angelo Flaccavento è tra i più talentuosi critici di moda al mondo e pilastro della piattaforma internazionale professionale “Business of Fashion”, molto potente nell’industria.
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L’intervista è parte di una serie di interviste condotte dal critico Carlo Antonelli contenute nello speciale DopoDomani dedicato alla moda, in edicola e in digitale sabato 18 dicembre.
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Leggi qui tutte le interviste in aggiornamento.
Angelo Flaccavento è tra i più talentuosi critici di moda al mondo e pilastro della piattaforma internazionale professionale “Business of Fashion”, molto potente nell’industria. L’intervista è parte di una serie di interviste condotte dal critico Carlo Antonelli contenute nello speciale DopoDomani dedicato alla moda, in edicola e in digitale sabato 18 dicembre. Leggi qui tutte le interviste in aggiornamento.
Carlo Antonelli: A che punto è lo stile maschile oggi? Dal punto di vista tecnico, metaforico, geografico.
Angelo Flaccavento: Come un po’ tutto nella moda, e direi non solo, il menswear è in uno stato di flusso costante, di frammentazione particellare. Direi proprio di esplosione: non ci sono più appigli e certezze, perché il patriarcato classista del vestito formale ha cessato da tempo di rappresentare un punto saldo, un bene-rifugio nella tormenta delle possibilità infinite.
La moda maschile è un territorio particolarmente fertile al momento, ben più di quella femminile, perché il processo di decostruzione della figura atavica del maschio, in corso da decenni con un abbrivio evidente dagli anni Novanta del metrosessualismo, passa in modo consistente dagli abiti, in quanto costumi da esperire nel teatro della vita sociale, e sta subendo una accelerazione incontrollata.
Non mi riferisco solo alla evidente femminilizzazione dell’apparire, con la conseguente accettazione di mollezze e fragilità ormai depauperate del portato finocchio – e in questo senso lo spostamento a est del mercato di riferimento è di certo un volano da considerare, vista la maschilità locale assai meno machista, in materia di codici e segni, dell’occidente – quanto proprio al rifiuto della figura fatta e finita del maschio adulto vestito di tutto punto.
Assistiamo allora a una crescente infantilizzazione, adesso che la giovinezza estrema è il solo valore perseguibile, per tutte le generazioni e in barba all’allungarsi della vita media e a ogni vetusta idea di dignità, e a una sorta di lotta di classe all’inverso, che porta quanti hanno potere di spesa – i nuovi ricchi, spesso giovanissimi e con percorsi professionali in ambiti immateriali nei quali però si monetizza massicciamente, ma anche i ricchi e basta – ad adottare i segni vestimentari della periferia e delle sottoculture proletarie, contestualizzandoli però sotto un logo e sotto una idea, quella invece vetusta, di lusso.
Tecnicamente il menswear attuale risente di questo processo decostruttivo ibridando forme e soluzioni in una ricerca di comfort che è tecnicità del tessuto e performance della forma, ma direi che tutto questo aspetto incide più sulla quotidianità dell’uso che sulla moda come fabbrica in primo luogo di immagini e idoli. Metaforicamente, siamo in un prolungato big bang.
Antonelli: Chi sono le menti (e le mani, e i cuori) che hanno intuito, venti anni o dieci anni fa, cosa sarebbe stato lo stile del momento?
Flaccavento: Qualsiasi individuazione di mani, menti e occhi che hanno plasmato lo scenario attuale, o hanno contribuito a farlo, non può che considerarsi parziale: nell’esplosione generale, ci sono bagliori che hanno catturato l’occhio, altri che magari sono sfuggiti – a me intendo – ma che hanno generato onde. Quindi questa risposta non ha pretesa di esaustività: sto solo mettendo delle puntine colorate sulla mappa. Il discorso naturalmente va condotto su più piani, insieme paralleli e tangenti.
Una figura nodale nello slittamento via dal formale verso la strada, le gang, le affiliazioni subculturali espresse attraverso significanti estetici di matrice tribale è sicuramente Riccardo Tisci, che, con l’aiuto fondamentale dello stylist Panos Yiapanis, ha modellato l’uomo Givenchy su un thug suburbano, e lo ha fatto da Avenue George V, non dalla banlieue, spostando l’asse del cool in periferia. Lavorando su capi basici di uso sportivo – t-shirt, shorts, leggings – e stratificandoli in combinazioni immaginifiche – qui il contributo di Yiapanis-Tisci ha creato un look ma anche un repertorio di forme, in sostanza promuovendo il basico, opportunamente trattato, a veicolo di moda alta. Il suo fondamentale contributo in termini di casting e diversità di tipi ha aperto le porte alla narrativa inclusiva che oggi è diventata d’obbligo, ma sulla quale Tisci non ha capitalizzato come avrebbe potuto.
Altro personaggio nodale è Rick Owens, il cui lavoro sul jersey e sul corpo è notevole non solo perché si è mosso dal grunge/goth iniziale a una sorta di glamour sbrecciato e testosteronico, ma perché ha offerto strumenti estetici adeguati ai palestrati di turno, che nell’offerta comune di rado non trovano nulla che si adatti ai loro ipercorpi. Lui invece gli ipercorpi li ha resi eleganti, macho e malinconici. Il lavoro di Owens è sottile e sofisticato, ma corteggia in modo chiaro un uditorio poco o per nulla formale, cui offre strumenti vestimentari estremamente malleabili.
L’infantilizzazione in corso, espressa in primo luogo da una ricerca di proporzioni strette e risicate da adolescente emaciato, è partita con Hedi Slimane da Dior Homme nei primissimi anni Zero, ed è poi esplosa nella sartoria da giardino d’infanzia di Thom Browne, che i suoi uomini li castra quasi a suon di short, calzettoni, e cravattine, trasformandoli in eterni studenti della boarding school cresciuti troppo in fretta dentro l’uniforme.
Per il côté autenticamente subculturale, discotecaro, clubbing e sessualmente fluido, non si può non citare Walter Van Beirendonck, la cui lingua pop/trash/glam si muove da un trentennio buono in una nicchia non sempre molto visibile, ma di certo influente. Nel plasmare la lingua dell’uomo Vuitton, Virgil Abloh ha proprio guardato a lui, non ultimo per la capacità di mescolare i segni con sprezzo assoluto delle regole imposte.
Il tema utility e uniforme è un percorso che attraversa sin dagli inizi la storia della moda maschile, solidificandosi nell’idea formale dell’uniforme come nel pragmatismo estremo di cargo e field jacket, ma Craig Green ne ha colto gli aspetti rituali e pratici, creando una lingua che è insieme fantasiosa e utile. La decostruzione del maschio ha il suo paladino più astratto e ispirante in Jonathan Anderson, il cui lavoro di annientamento e collage deve molto al contributo dello stylist Benjamin Bruno – altro personaggio nodale, in particolare nella fase in cui ha lavorato per il magazine Man about town nel breve periodo della direzione artistica di M+M (Paris).
Seppure nel discorso attuale del menswear l’eleganza non è una qualità posta in grande considerazione, una figura come quella di Stefano Pilati, prima con Saint-Laurent, poi con il visionario progetto Random Identities, va tenuta in massimo conto per la capacità di coniugare un rigoroso classicismo di fondo con un deciso afflato underground che probabilmente è solo posa, ma che nondimeno impatta sulle forme, le costruzioni, gli usi, creando una serie di suggestioni d’uso.
Tra gli anticipatori e istigatori di molto di quel che è successo vanno annoverati anche i creatori di immagini, in particolare Wolfgang Tillmans, per l’onestà ruvida nella documentazione di scene e corpi, antesignana di inclusione e body positivity, e Ryan McGinley, per la glorificazione ed estrema estetizzazione della gioventù bruciata e sballata.
Infine, se si vuole analizzare la moda secondo vecchi schemi, ovvero partendo dall’analisi della silhouette, il vero innovatore epocale dopo Hedi Slimane è stato Demna Gvasalia, che ha sdoganato l’oversize, allontanando con un gesto estremo gli abiti dal corpo per creare forme che sono plumbee e protettive, ben diverse dai grossi volumi degli anni Ottanta cui sembrano riferirsi.
Antonelli: La pandemia e i cambianti demografici hanno definitivamente accelerato l’erosione dello stile classico? È finalmente finito il Novecento?
Flaccavento: Pandemia e conseguente imposizione di una agenda informale, e poi l’abbassamento dell’età media di riferimento della clientela (reale o suggerita) hanno di certo contribuito a erodere quasi definitivamente il classico. Oggi anche nei templi del formale come Zegna si propongono soluzioni vestimentarie più fluide e adatte al momento, e il risultato è uno spettro di possibilità nuove che si traduce in una estetica liquida. Quindi sì, il Ventesimo secolo sembrerebbe terminato. Mantengo però il condizionale perché la natura ciclica della moda, come della storia, non è ancora stata scientificamente smentita.
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