A Firenze la mostra Untrue Unreal raccoglie lavori dello scultore realizzati dagli anni Ottanta a oggi. Con le sue opere l’artista esplora la mitologia dell’oggetto autoprodotto e apre porte verso l’ignoto
Un grande cubo bianco a cui è possibile accedere. All’interno, su tre pareti, tre superfici dipinte, piane e rettangolari, sono posizionate all’altezza degli occhi. Consentire allo spettatore di porsi frontalmente dinanzi a un dipinto per guardarlo a distanza ravvicinata permette di coglierne i dettagli.
All’interno del cubo bianco ci si sofferma a osservare i tre rettangoli, che polarizzano l’attenzione pur non presentando alcuna immagine. Si tratta infatti di tre superfici monocrome, di un nero così intenso che è difficile immaginare che possa esisterne uno ancora più profondo. In un primo momento tutto lascia pensare che non c’è nulla in questi rettangoli neri che abbia una relazione con il nostro vissuto, ed essi finiscono per assumere l’identità di uno spazio che si apre verso un al di là che non ci è dato conoscere.
La profondità del nero ci porta tuttavia a confrontarci con i nostri limiti e con l’esigenza di spingerci oltre il finito. Questi rettangoli neri attraggono e insieme incuriosiscono, tanto che si ha la tentazione di toccarlo, quel nero, per trarre dal contatto elementi di conoscenza. Più quel nero ci invita al silenzio e alla riflessione più si comprende che ci troviamo dinanzi a qualcosa che ha a che fare con il nostro vissuto.
Untrue Unreal
Siamo nel cortile di Palazzo Strozzi e quel cubo bianco, e ciò che troviamo al suo interno, è l’opera site-specific Void Pavilion VII, realizzata da Anish Kapoor come aperura della sua mostra Untrue Unreal, (fino al 4 febbraio, a cura di Arturo Galansino).
Per questi rettangoli neri, come per una parte dei lavori esposti al piano nobile di Palazzo Strozzi, Kapoor si è servito del Vantablack, un tipo di nero capace di assorbire oltre 99 per cento della radiazione luminosa, ottenuto in laboratorio da un’azienda britannica che opera nel settore delle nanotecnologie.
Il carattere immateriale che il Vantablack conferisce alle forme pone l’opera in bilico tra l’indeterminato e il rigore della scienza cui l’artista si affida per raggiungere i suoi obiettivi. Kapoor mette così in scena energie che invece di contrastarsi tendono a integrare il loro ruolo nel processo conoscitivo dell’esperienza umana.
Il nero profondo, inteso come vuoto da attraversare con la mente, apre così a implicazioni legate alla perdita del sé, ma anche all’origine della vita, al buio che il feto incontra nell’utero materno prima di vedere la luce.
Ingannano l’occhio anche le opere realizzate in acciaio specchiante, di cui non si riesce a cogliere la forma. Anche questi lavori, frutto di accurati studi ingegneristici, sfidano i meccanismi della percezione aprendo a una riflessione sull’inconoscibile, su ciò che forse riusciamo appena a intuire in un particolare stato mentale, ma di cui non avremo mai certezza.
Quali che siano le tecniche e i materiali utilizzati, Kapoor ci indica soglie da varcare che, pur non essendo fisicamente attraversabili, rappresentano un oltre pregno di infinite possibilità di cui vogliamo sapere di più. Si tratta di qualcosa che intravvediamo e che è nello stesso tempo attraente e perturbante.
Un’opera che prende corpo
Untrue Unreal raccoglie lavori realizzati dai primi anni Ottanta a oggi, presentati senza seguire un ordine cronologico. Ordine e disordine, ecco altri due poli cari all’artista.
In questa mostra, a scompigliare ulteriormente le carte, l’artista ha interrotto la simmetria della sale dell’antico palazzo rinascimentale inserendo la grande installazione Svayambhu nel passaggio tra una sala e l’altra.
L’opera è costituita da un grande blocco di cera rosso scuro che, avanzando lentamente su un binario rialzato, viene modellata dall’attraversamento di una porta, sulla quale lascia evidenti le tracce del suo passaggio. Svayambhu mette in discussione una delle certezze della scultura classica: il suo carattere materico compatto, stabile, inalterabile.
Da una parte il luogo che la ospita ne determina la forma e il volume, dall’altra il continuo e lento movimento su rotaie della massa di cera ha tra le sue conseguenze piccole alterazioni della forma stessa. Quando infatti Svayambhu è stata esposta per la prima volta nel 2007 al Musée des Beaux-Arts di Nantes la massa di cera aveva assunto la forma delle arcate sotto cui era passata, per tornare ad assumere una forma squadrata nell’esposizione del 2009 alla Royal Academy of Arts di Londra.
L’opera, dunque, prende corpo ogni qualvolta viene esposta, per dissolversi a mostra conclusa, in attesa di tornare a nuova vita nell’esposizione successiva. Da qui il titolo, che in sanscrito esprime il senso dell’autogenerazione e che allude anche a un divenire che vede l’universo trasformarsi senza che l’essere umano percepisca i cambiamenti a cui la materia è soggetta.
Oggetti autoprodotti
Concettualmente Svayambhu segue la stessa logica costruttiva di My red homeland, del 2003. In quel caso a generare la forma della massa di cera era un braccio meccanico che con il suo movimento lento, quasi impercettibile, poneva la forma della scultura in una condizione di continuo mutamento.
Kapoor ha dichiarato che piuttosto che alla forma in quanto tale è sempre stato interessato alla «mitologia dell’oggetto autoprodotto, come se l’opera non avesse un autore, come se fosse lì per sua volontà».
Un’idea questa, precisa ancora l’artista, che ha le sue radici nel pensiero indiano, e che ritroviamo anche alla base delle antiche icone della tradizione cristiana.
Dipinte rifacendosi a un modello rituale che indica nei dettagli come deve essere costruita l’immagine, le icone venivano considerate non originate da mano umana, acheropite, dunque teofanie, ovvero manifestazioni sensibili del divino, la cui realizzazione richiede una forma di spersonalizzazione estranea al concetto del genio creativo che si è affermato in occidente a partire dal Rinascimento. Vista in quest’ottica, in quanto opera non realizzata da mano umana – ma certamente grazie alla presenza umana – Svayambhu assume il carattere di una forma che si autogenera.
Qualcosa è
Concepita come un’antologica, la mostra fiorentina comprende, tra le altre, delle opere tridimensionali in cera e silicone che fanno immediatamente pensare a una massa di carne, ossa e cartilagini. Opere dello stesso ciclo sono state esposte 2016 al Rijksmuseum di Amsterdam, in dialogo con le tele di Rembrandt. A Palazzo Strozzi uno di questi lavori, First Milk (2015), richiama formalmente una deposizione, mentre un altro, Today You Will Be in Paradise (2016) presenta lateralmente, quasi nascosta all’occhio, una sorta di ferita che si spinge ancora più in profondità nella carne viva che riconosciamo nell’opera.
Nel gioco di opposti che si legittimano vicendevolmente non mancano riferimenti sessuali. A Blackish Fluid Excavation (2018), per esempio, lunga oltre sette metri, a seconda dell’angolazione da cui la si guarda richiama ora una vagina ora un pene. Anche qui la forma cava, il vuoto, il suo attraversamento, è una porta verso l’ignoto. Insomma, il vuoto per Kapoor è tutt’altro che il nulla. È il varco che ci consente di entrare in una dimensione altra rispetto al mondo fisico. Il nulla, del resto, come ebbe a dirmi Arthur Danto durante una delle nostre conversazioni, «qualcosa è».
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