Paolo Di Paolo entra nel cantiere del più popolare fumettista italiano, Zerocalcare
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Paolo Di Paolo: Che significa, per te, scrivere/disegnare di te? È inevitabile?
Zerocalcare: Oddio, di inevitabile non c’è quasi niente, ma è l’unica cosa che sono capace di fare. Andando avanti negli anni, invece di imparare a raccontare altro, mi sono convinto che l’unica cosa che mi viene bene è scavare dentro le mie cose.
PDP: Il personaggio che dice “io” nei tuoi fumetti è una maschera, un’estensione? Parleresti di autobiografia o autofiction?
Z: Direi autofiction nel senso che, a volte, quel personaggio è al centro di situazioni che non ricalcano esattamente quello che è successo. Come documentario sarebbe fraudolento. Però, anche nelle forzature narrative cerco di ricalcare qualcosa che conosco, di ricreare situazioni simili a quelle che ho vissuto, e trasportare le emozioni che ho provato in quel contesto, per non dover mai inventare un sentimento di sana pianta.
PDP: Che idea ti sei fatto del processo attraverso cui qualcosa di molto particolare, specifico, se vuoi circoscritto o comunque marcato anche da un punto di vista linguistico, può diventare “universale”?
Z: Completamente universale forse non lo sarà mai, ma credo che intanto, anche quando linguisticamente o anagraficamente lontani, condividiamo un nocciolo profondo. Non ha nemmeno a che vedere con le convinzioni politiche, ri guarda proprio il rapporto tra noi e gli altri, quello che ci circonda. Se uno riesce a mettere a fuoco quella cosa, che spesso è sepolta da un sacco di sovrastrutture, può far trovare a tante persone qualcosa di familiare.
PDP: Per l’ultimo libro hai raccontato in anticipo le reazioni dei tuoi genitori. Quanto conta e, più in generale, quanto ti condiziona la pre senza/realtà effettiva di molti dei tuoi “personaggi”?
Z: Tantissimo. Non salvo vite, non esiste nessuna urgenza di scrittura che possa passare avanti al rispetto e alla cura delle persone. Non significa che le cose che scrivo non possano ferire, a volte mi è capitato di farlo, ma per un errore di va lutazione, non per menefreghismo. Anche quando scrivo cose polemiche, mi pongo sempre molto il problema di chi si sentirà colpito. Poi magari lo faccio lo stesso se sono razionalmente convinto che sia giusto farlo, ma mai per un’esigenza “artistica”.
Sono molte di più le volte in cui mi autocensuro per non far rimanere male qualcuno che non se lo merita.
da Un anno di storie 2024, Treccani
© Riproduzione riservata