Prologo: Flōd, 1355

«Vi sono tre cose di siffatta natura da generare una distruzione implacabile quando prendono il sopravvento: una è l’alluvione, l’altra è l’incendio e la terza è il popolo minuto, il comune volgo, che non si lascia imbrigliare né dalla ragione né dalla disciplina».

John Gower, Mirour de l’omme, 1376-1378

Il suo primissimo ricordo coincide con un evento straordinario. Il suo primissimo ricordo è legato al mattino in cui assistette alla fine del mondo dal tetto della casa di sua madre.

Il livello dell’acqua era salito per tutta la notte, mangiandosi quell’isola indigesta pezzo dopo pezzo. E lui era ancora abbastanza piccolo per provare un brivido segreto di fronte al fenomeno che si stava verificando, anche quando l’acqua raggiungeva il granaio, il fienile, anche quando lambiva le soglie delle case più vicine alla costa. Il bambino aveva tratteggiato il panico degli adulti tutt’intorno con un senso, quasi, di esaltazione. Nessuno dormì quella notte: lavorarono fino alle ore piccole, l’acqua argentea che avanzava inesorabilmente sotto una luna enorme e levigata, simile a un’ostia. Condussero le pecore in alto, poi più in alto, e più in alto ancora. Finché non ebbero altro posto dove portare le pecore. Finché non ebbero altro posto dove andare.

Le ore più buie

Ci sono istanti, immagini fulminee, che il bambino rammenta per la loro ironia, surreale e tragica. Le pecore sui tetti di paglia avvallati delle casupole, gli agnelli legati ai rami di alberelli rachitici, le pecore costrette ad arrampicarsi sul campanile. Le pecore, sulle zampe impacciate, accecate dal vello, che belavano salendo i gradini e le scale a pioli. Le pecore spinte verso gli ultimi affioramenti di terra, le pecore che cercavano di tener testa all’acqua, che annegavano, inghiottite dall’oscurità. L’espressione di serena, immortale insipienza. Di grottesco terrore.

Nemmeno lui dormì. Lavorò nelle ore più buie, insieme alla madre. La donna sembrava sant’Agnese, quella sulle finestre di vetro colorato che lui ben conosceva. Ma più brutta. Zuppa di acqua salata fino alla cintola del grembiule, una pecorella belante piantata saldamente sulle spalle. Inquieta. L’afrore inconfondibile della pecora – grasso, penetrante come ammoniaca – era anche l’odore di sua madre.

Il bambino era passato a guado sui pascoli con i piedi intorpiditi, zuppo fino al midollo. Non c’era luce, tranne il chiarore flebile della luna e delle stelle: solo grida e ombre, in quella notte nera ed equorea. E infine, lo stridore del legno spezzato quando i fragili edifici, gli scheletri spappolati dall’alluvione, erano collassati.

La parte peggiore fu l’affiorare delle fosse comuni. Il sottile strato di terra che avevano gettato sui tanti falcidiati dalla peste fu lavato via, e la carne ingrommata, ora rediviva, trascinata via dall’inondazione. Il tanfo delle carcasse infette si aggiunse alla brodaglia di salsedine e letame. Il bambino vide un cane che rosicchiava la mascella di un neonato per succhiarne il midollo. Corpi con bolle al posto degli occhi. Una candida spuma di cera cadaverica che conferiva un aspetto nuziale alle felci e ai cardi che ancora spuntavano dappertutto, inchinati alla superficie dell’acqua.

Il bambino può affermarlo con la certezza dell’esperienza: i teschi galleggiano.

E già a mezzanotte apparve evidente che l’acqua non avrebbe smesso di salire – o che, senza dubbio, avrebbe dovuto fermarsi, ritirarsi, ma non lo avrebbe fatto a breve – e che avrebbe fagocitato tutti i beni effimeri che possedevano. E cosa possedeva quella gente, la sua gente, che non fosse effimero? Possedevano forse qualcosa che fosse destinato a durare? Nemmeno i loro corpi erano destinati a durare.

Erano corpi funestati e assottigliati da mezzo secolo di avvenimenti che parevano condensare una tragedia escatologica millenaria: carestie, pestilenze, incursioni francesi. Comete circonfuse dalle fiamme che esplodevano in cielo. E non c’era un solo uomo a Canaveye con i polsi più spessi di un manico di scopa. E quegli uomini e quelle donne non erano in grado di possedere niente, tranne le sciocche bestie da cortile; questo lui lo sapeva. La sua magra eredità: zanzare portatrici di malaria e sbiancate erbe costiere taglienti come seghe. Ossa soffici come cagliata.

Acqua e fuoco 

All’avvicinarsi dell’alba l’acqua salì all’altezza del suo cuore. All’altezza dei fianchi di sua madre. E un panico assoluto prese piede, perché la perdita di tutto ciò che avevano costruito o comprato iniziava a sembrare poca cosa, perché pareva che sarebbero annegati e che non avrebbero più costruito o comprato nulla in questa vita. E temevano di vedersi negare anche la successiva, perché non avrebbero ricevuto gli ultimi sacramenti: il sacerdote si era barricato in chiesa e i loro corpi sarebbero stati trascinati via come pula, sconsacrati e sconfessati.

E tutto questo, questo galleggiare e aspettare alla tenue luce del mattino mentre il freddo si impossessava lentamente del loro corpo, era solo una giusta preparazione alla morte che, più che altro, a lui pareva noiosa. Galleggiare, letteralmente, sotto il tetto di quella che un tempo era la taverna, con le braccia ossute di bambino strette intorno a una trave.

Dopotutto era cresciuto in quel posto, chiamato Canaveye, dove la campagna digradava, apparentemente scoraggiata, nel mare. La natura di un luogo può impregnare la carne dei suoi figli e delle sue figlie? La loro è una terra che striscia sotto i piedi con un’indeterminatezza letale, resa superfrattale dall’incursione del mare. La terra rettilea delle paludi salmastre e delle mummie di palude. Non potevi disegnarne una mappa, perché mutava ogni giorno, si sbarazzava della pelle a ogni cambio di marea. Una lezione per gli astuti scritta nel limo.

Sembrava incredibile che vi fossero luoghi in cui il fuoco era la fonte primaria del terrore. Il loro invece era un reame di piogge, di onde e di fiumi: Roach, Colne, Blackwater. L’acqua pareva un elemento troppo assoluto, troppo torpido perché le si potesse ascrivere la malvagità; tuttavia la distruzione che aveva generato era stata più improvvisa e più completa di qualsiasi altra forgiata dalle fiamme.

Gli ultimi centimetri

Era mattina, e lui si trovava quasi schiacciato contro il soffitto accanto alla madre. Abbarbicato a quell’architrave, gli ultimi dodici centimetri di grazia sopra la testa, dodici centimetri tra la prosecuzione della vita e l’ineluttabilità dell’annegamento. Gli occhi della madre saettavano tutt’intorno come gli occhi di un animale in trappola. E disse: «Dobbiamo raggiungere un altro tetto. Sai nuotare?».

No, e lei lo sapeva. Lo agguantò con il braccio libero e si allacciò intorno al collo le dita del figlio. Lui sentì i muscoli freddi del corpo esile della madre. Chiudi gli occhi. E chiudi bene la bocca.

Si immersero sott’acqua, che era acqua di mare e faceva pizzicare gli occhi, e lui si tenne stretto alla madre per non morire mentre lei annaspava sotto la superficie, le dita che cercavano un appiglio, un passaggio, il varco aperto verso la salvezza. E infine riemersero, all’esterno, al calore di un giorno appena nato. Entrambi ansimanti, i capelli incollati al viso. La madre si aggrappò a un puntone, tossendo acqua salata, e il bambino si aggrappò a lei, la guancia sinistra premuta contro quella destra della donna, finché lei non gli ordinò: Arrampicati.

E lui obbedì, con i piccoli muscoli in preda ai crampi, finché non raggiunse la sommità dell’edificio e crollò sulla pancia, e ansimando si guardò intorno. E quel che vide da lassù fu un mondo scintillante, senza inizio né fine. Una quasi totalità d’acqua, dal punto in cui l’orizzonte incontrava il cielo e viceversa, così da formare una cupola chiusa di quella stessa luna-ostia che aveva rischiarato i loro sforzi patetici per salvare i pochi averi. La madre si issò accanto a lui.

Rimasero seduti, in silenzio, a tremare di freddo. Avevano i vestiti fradici. Grondavano da ogni parte. Il bambino vide che c’erano altri tetti-isola e sopra di essi scorse altre figure umane appollaiate in modo del tutto scomposto, disorientate, gli occhi rossi e lacrimosi fissi sull’orizzonte; e mele galleggianti e utensili di peltro; qua e là alberi biforcuti e mezzi sfrondati. Su uno di questi alberi uno stormo di corvi si contendeva dolci prelibatezze: i bulbi oculari di un povero agnello appeso che era scivolato giù dalle corde. Che mondo era, quel mondo? Dov’era Dio, dov’era la promessa della Sua benevola supervisione? Vivevano bene, nella pulizia, nel rispetto delle leggi di Santa Madre Chiesa; eppure eccoli là, a guardare i corvi che si ingozzavano di carne di agnello.

Il sogno dell’Arca

Era quasi sera quando l’acqua iniziò a ritirarsi; il risucchio di balze tremanti attraverso le rovine di quelli che prima erano stati fienili e granai portava con sé un cumulo di relitti. Non c’era più niente che la marea potesse abbattere. Eppure erano vivi, per vedere il rossore della sera saturare i confini del mondo, mentre il mare riacquisiva le sue dimensioni originarie. Tutto era un silenzio stupefatto, finché poi la porta ingrossata della chiesetta di legno non si aprì con un crepitio e apparve il sacerdote, stremato per lo sforzo.

Il bambino guardò il sant’uomo passare a guado sulla sabbia rosa ancora inondata, alzare il pastorale e invocare – anche se troppo tardi – santa Margherita. Il religioso intonò Christus tonat Angelus nunciat Johannes predicat contro il lamento variegato dei gabbiani, ancora euforici per l’improvvisa espansione del loro feudo acquatico.

Gli occhi cabochon dei rapaci si riflettono nelle sfere gialle e splenetiche di quegli uccelli marini. Oltre l’imbrunire rosato che inonda la spiaggia, tutto è tenebra, dove gli uomini, le donne e i bambini di queste isole si agiteranno nel sonno, attraversando inconsapevolmente i siparietti arcani dei sogni che sono bizzarri / confusi / sanguinari / pieni di sesso e/o terrore. Il sogno di sposare un cane o di essere dilaniati da cani. Il sogno del Regno Eterno, dove torri d’ambra sfiorano le sfere celesti. Il sogno dell’Arca e del luogo in cui l’Arca si arenò quando il diluvio finì, sul monte dove cresceva un solo albero, un monte chiamato Ararat.

Traduzione a cura di Velia Februari

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