Un’asta senza precedenti si tiene a New York il 17 maggio. In vendita è il codice Sassoon, presentato da Sotheby’s come il più antico manoscritto completo della Bibbia ebraica, che risalirebbe agli inizi del X secolo e contiene tutto il tanak. Il termine, intraducibile, indica l’antichissima tripartizione dell’«antico testamento» – la prima parte della Bibbia cristiana – in torah («legge», contenuta nei «cinque rotoli» che costituiscono il Pentateuco), nevim («profeti») e ketuvim («scritti», tra cui i Salmi).

La quotazione di questo splendido codice medievale è fra i 30 e i 50 milioni di dollari, una cifra enorme, mai raggiunta da un libro. A far datare il manoscritto – grazie anche al metodo del carbonio – è stato l’attuale proprietario, il noto uomo d’affari svizzero Jacqui Safra, discendente da una famiglia ebraica siro-libanese, nonché amico e finanziatore di Woody Allen.

Ma il codice deve il nome a chi nel 1929 lo scoprì: David Solomon Sassoon, nipote del capo della comunità ebraica di Baghdad (poi di Bombay). Rampollo della ricchissima dinastia dei «Rotschild d’oriente», Sassoon ricercò e acquistò nel vicino e medio oriente centinaia di libri antichi, poi in gran parte venduti dalla famiglia. Alla sua collezione appartenevano il Pentateuco di Damasco – un manoscritto del X secolo con la sola torah (mancante di alcune parti) – e il codice ora all’asta, comprato da Sassoon per 350 sterline e dal 1978 rivenduto per tre volte con quotazioni sempre crescenti, fino ai 4,2 milioni di dollari sborsati da Safra nel 1989.

La formazione della Bibbia

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Oggi in genere la Bibbia si presenta in un solo volume, ma in realtà è costituita da decine di «libri» (biblìa vengono appunto chiamati nel testo greco del Primo libro dei Maccabei) che sono il frutto di stratificazioni e riscritture. In gran parte patrimonio comune di ebrei e cristiani, questa biblioteca – d’importanza immensa anche sul piano culturale e letterario – si è formata nel corso di una decina di secoli. Nel millennio prima della nostra èra vennero composte le scritture ebraiche; quindi, tra l’anno 50 e il 130, in greco fu scritto il «nuovo testamento» cristiano.

I libri della Bibbia ebraica e cristiana sono stati copiati in migliaia di manoscritti: sono all’inizio rotoli ma poi s’impongono i codici, soprattutto in pergamena, presto tradotti nelle lingue più diverse e a volte in alfabeti appositamente creati (per esempio, il gotico e lo slavo antico). Ma, come per quasi tutta la letteratura dell’antichità, questi libri – in particolare quelli in ebraico – sono stati trascritti in epoche molto posteriori rispetto ai testi originali: mediamente una quindicina di secoli separa il codice Sassoon dall’età in cui furono scritti i libri del tanak.

Il codice di Aleppo

Il codice di Aleppo (Foto AP)

Per un altro manoscritto completo della Bibbia ebraica, il codice B 19 A di San Pietroburgo (o codice di Leningrado), la data è invece sicura: l’annotazione di un copista dichiara infatti che la trascrizione avvenne nell’anno 1008 al Cairo. Fu trovato da Abraham Firkovich – un tenace cercatore di libri appartenente alla corrente ebraica dei caraiti, che si fondano solo sul tanak scritto e non considerano le tradizioni orali – e nel 1838 venne portato a Odessa; poi nel 1863 fu acquisito dalla Biblioteca imperiale pubblica della capitale russa.

Perduta è invece quasi la metà del codice di Aleppo, vanto della grande sinagoga nella città siriana e oggi conservato nel Santuario del libro a Gerusalemme. Copiato nel X secolo, il manoscritto scomparve infatti nel dicembre del 1947 durante i disordini antiebraici in seguito alla decisione delle Nazioni unite di spartire la Palestina. Ma nel 1958, in modo rocambolesco, il codice arrivò in Israele, probabilmente ancora integro.

I ben 200 fogli su quasi 500 che mancano sono forse spariti a Gerusalemme, e non in Siria, perché il manoscritto sarebbe stato smembrato e mutilato – forse a scopo di lucro – proprio in Israele, là dove invece avrebbe dovuto essere conservato. Così sostiene il giornalista Matti Friedman, che nel 2012 ha raccontato la sua inchiesta, durata quattro anni, nel libro The Aleppo Codex. In questa incredibile storia buoni e cattivi si confondono, nascosti tra studiosi, trafficanti, autorità governative, agenti segreti, e i colpi di scena si succedono come in un buon giallo.

La scuola di Tiberiade

Ma al di là delle storie diverse, sono il tipo di testo e l’origine ad accomunare il manoscritto di Aleppo, quello di San Pietroburgo e il codice Sassoon. Tutti e tre infatti derivano dalla più importante scuola di masoreti, fiorita per un secolo e mezzo (dal 780 al 930) in Galilea, a Tiberiade, grazie a sei generazioni della famiglia Ben Asher. Gli scribi incaricati di copiare il tanak – un testo che di fatto era fluido perché fino al VI secolo non era vocalizzato e dava luogo a diverse possibili letture – iniziarono da allora a corredarlo con un sistema di annotazioni (detto masorah, «tradizione»), che sono anche interpretative. Venne così fissato il testo masoretico, quello dell’attuale Bibbia.

Il problema è accertare in che misura questo testo, di età medievale, sia vicino agli originali. Forme testuali divergenti e molto più antiche si leggono infatti in manoscritti parziali o frammentari. Soprattutto i testi biblici di Qumran – risalenti agli ultimi secoli prima dell’era cristiana e scoperti in undici grotte sulle rive del mar Morto tra il 1947 e il 1961 – sono importanti e permettono di risolvere punti incomprensibili del testo masoretico. Tra i manoscritti di Qumran spicca il grande rotolo del profeta Isaia, databile tra il III e il II secolo avanti l’èra cristiana: più vicino all’originale scritto tra l’VIII e il VI secolo, colma un vuoto addirittura di 13 secoli.

Ma altrettanto antiche sono le traduzioni del tanak in greco, di valore inestimabile. Realizzate da ebrei di cultura ellenistica tra il III e il II secolo prima dell’èra cristiana nella «lingua comune» (la koinè diàlektos, paragonabile oggi all’inglese) hanno permesso una diffusione della Bibbia altrimenti impossibile in ebraico. Sono note con il nome di Settanta dal numero dei loro traduttori – inviati secondo un’affascinante leggenda da Gerusalemme a Tolomeo II, il sovrano d’Egitto che voleva avere nella biblioteca di Alessandria i testi sacri ebraici – e aiutano a ricostruire gli originali ebraici.

Il Sinaitico e il Vaticano

Due grandi codici della Settanta comprendono anche il Nuovo Testamento greco e contengono dunque l’intera Bibbia degli ebrei e dei cristiani. Sono il Sinaitico e il Vaticano, molto probabilmente legati all’attività di un grande filologo, Eusebio vescovo di Cesarea in Palestina, che intorno al 330 li fece trascrivere per l’imperatore Costantino. Le vicende del primo sembrano un film di Indiana Jones, mentre quelle del secondo attraversano tutta la storia della cultura tra Costantinopoli e Roma.

A scoprire il primo, dal 2009 accessibile in rete (codexsinaiticus.org), fu nel monastero di Santa Caterina sul Sinai il giovane biblista tedesco Costantin Tischendorf. Nel 1844 ne recuperò casualmente una quarantina di fogli, finché nel 1859 riuscì a trovare l’intero codice. L’appassionato studioso, che lo pubblicò in una monumentale edizione, seppe anche raccontare con efficacia (e forse qualche abbellimento) la sua scoperta.

Ne seguirono clamore, ammirazione ma anche invidie, polemiche e l’entrata in scena di Costantino Simonidis, un abilissimo greco, che incredibilmente asserì di essere stato lui a trascrivere l’intero codice e la cui storia degna di Borges è raccontata benissimo da Rüdiger Schaper (L’odissea del falsario, a cura di Luciano Bossina con introduzione di Luciano Canfora). Arrivato in Russia nel 1869, il Sinaitico fu venduto nel 1933 dai sovietici al British Museum per centomila sterline (otto milioni di euro) ottenute con una sottoscrizione pubblica.

Emblematica è infine la storia del codice Vaticano, che è tra i più affidabili manoscritti biblici. Lo confermò nel 1966 il giovane Carlo Maria Martini dimostrando la vicinanza del suo testo dei vangeli a quello di un papiro, siglato P 75 e copiato intorno all’anno 200. Per oltre un millennio a Costantinopoli, il bellissimo codice – indagato nel 2018 da Pietro Versace, poi da Fabio Acerbi e Daniele Bianconi – arrivò in Italia nel 1439, al tempo del concilio di Firenze. Studiato dal cardinale greco Bessarione, una ventina d’anni più tardi il codice venne donato al papa. Non si sa da chi, ma da allora è in Biblioteca vaticana.

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