Successe precisamente cent’anni fa, l’11 luglio del 1924, ai Giochi di Parigi, proprio la città in cui le Olimpiadi torneranno fra due settimane. Fu una cosa mai vista. Eric Liddell, nato e cresciuto in Cina e poi trasferitosi in Scozia per l’età della scuola e in corsa con la maglia della Gran Bretagna, un po’ rugbista e un po’ velocista, cominciò con il salutare tutti gli avversari prima del via. Lo faceva sempre. Poi prese posto in sesta corsia, allora la più esterna, e si consegnò alla sua micidiale voglia di vincere.

Partì a palla come se quei quattrocento metri non li dovesse correre, ma divorare. Il corrispondente del Glasgow Herald rese l’idea: «Temevo che la velocità incredibile a cui era arrivato potesse ucciderlo». Non ci furono tattiche, soltanto l’idea di prosciugare sé stesso dal primo centesimo di secondo di gara. I tentativi di rimonta degli altri si sbriciolarono. Nell’istantanea che fotografa il momento dell’arrivo trionfale di Liddell, si vede Coard Taylor, uno degli statunitensi, che finisce per terra, schiantato dal desiderio di recuperare l’irrecuperabile.

Nonostante quel suo correre così poco estetico con la testa incassata all’indietro e un fisico tutt’altro che statuario, Eric vinse, anzi stravinse: successo e record del mondo, 47 secondi e 6 decimi. La folla dello stadio Colombes – tuttora vivo e vegeto, nelle prossime Olimpiadi ospiterà il torneo di hockey su prato  – venne rapita dall’euforia di chi sa di aver assistito a uno di quegli eventi destinati all’immortalità sportiva.

Il no ai 100 per fede

Eric Liddell sapeva soffrire. Lui e il fratello Rob diventarono grandi da soli: anni e anni passati in un collegio, a Eltham, con i genitori missionari in Cina. Mamma e papà erano lontani pure nei giorni di Parigi. Ma per vincere, lo “scozzese volante”, uno dei suoi tanti soprannomi, dovette cambiare casa. Si rifiutò di gareggiare nei 100 metri, la sua distanza prediletta, per non incappare in quello che riteneva un insulto alla sua fede cristiana. Le batterie della gara individuale, come pure le due staffette, si sarebbero svolte di domenica, il giorno del Signore che come tale andava celebrato: da predicatore congregazionista con la sua Bibbia e i suoi sermoni davanti a un pubblico da tutto esaurito, fatti di un linguaggio semplice ma contagioso, senza scarpette, senza corse, senza Olimpiadi. Quel suo diniego sembrò ai baroni olimpici di varie latitudini un gesto snobistico, uno schiaffo agli ideali dei Giochi, la scappatoia di uno smidollato, ma lui fu irremovibile. Il prezzo da pagare alla sua coerenza diventò altissimo: prendere o lasciare, dove lasciare significava rinunciare alle Olimpiadi, il sogno di tutti gli atleti.

A meno di un ribaltone: non più i 100 ma i 400. Il suo allenatore, Tom McKerchar, un tipografo con 12 figli (il tredicesimo sarebbe nato durante l’Olimpiade di Parigi…) che non rinunciava però ai suoi pomeriggi al campo neanche sotto tortura, non gli disse «così rovini tutto». Piuttosto pronunciò un incoraggiante «proviamoci». Ci provarono. In cinque mesi di allenamenti. E Liddell entrò nella storia. Ma a modo suo. Il fantastico Momenti di gloria, il film premio Oscar nel 1982, illustra il suo viaggio anche con l’aiuto della formidabile colonna sonora di Vangelis. Però Eric Liddell, o Li-mu-shi, il Pastore Liddell per i suoi quasi connazionali cinesi, non fu solo quella vittoria e l’originale percorso per arrivarci. Il suo olimpismo resta un bene prezioso di straordinaria modernità. Ispirato da una convinzione: lo sport non è un’isola, ma un posto in mezzo al mondo. Lo ribadì quando, a vittoria compiuta, a festeggiamenti in un locale dei Campi Elisi a base di succo di mela archiviati, a fama universale conquistata, a festa di laurea in Scienze celebrata – a Edimburgo, appena una settimana dopo il trionfo – cominciò a raccontare il futuro che l’aspettava.

La Cina

Avrebbe potuto ripetersi e specchiarsi nella sua popolarità. «Ma Dio mi aveva creato per la Cina». Altro che isola. Salì sull’Orient Express e raggiunse i suoi genitori: non li vedeva da tre anni. Lo aspettavano l’insegnamento e un’instancabile opera di evangelizzazione in mezzo ai mille guai della vita e della storia che piovevano su quella terra. Dove lo straniero era spesso un nemico. Il trionfo olimpico diventò un dettaglio, con il “contorno” della medaglia di bronzo nei 200, quasi da nascondere per evitare che gli altri non dialogassero alla pari con lui. Nello stesso modo in cui aveva consumato pure l’ultima mezza goccia di energia sulla cenere rossa di Colombes indossando il pettorale numero 451, prese a vivere a tutta su altri tipi di pista. Sballottolato da una Cina all’altra nel suo ruolo di missionario senza mai un momento in cui potesse fermarsi. E quando il mondo rotolò nella Seconda Guerra Mondiale, disse alla moglie Florence e alle figlie Patricia ed Heather (qualche mese dopo arrivò Maureen): mettetevi in salvo, io vi raggiungerò presto in Canada. Non sarebbe mai accaduto.

Gli ultimi mesi furono i più duri: il Giappone invase la Cina, lui finì in un campo di concentramento a Wehsien. E si fece buio, e fame, e malattia, un tumore al cervello che se lo portò via a 43 anni. Ma prima, quasi fino all’ultimo, si ostinò a tenere accesa la piccola luce di un’incrollabile fiducia nelle virtù dello sport, fino al punto di insegnare baseball e softball, dopo essere stato a scuola capitano delle squadra di cricket e di rugby (sport in cui vestì per sette volte anche la maglia della Nazionale scozzese) ed essersi cimentato in curiose partite di tennis sfidando sé stesso correndo da un lato all’altro del campo.

A un certo punto, regalò pure gli scarpini di Parigi. E per far giocare dei ragazzini del campo a hockey rinunciò pure alla sacralità della domenica. Un’Olimpiade d’uomo. Vissuta al centro del palcoscenico e poi nelle sue estreme periferie. Un’Olimpiade speciale, lontana da ogni forma di nazionalismo «perché abbiamo già abbastanza guerre fra nazioni». E anche il mito del dilettantismo, coniugato dal Cio in una maniera estrema in quegli anni, lo declinava a modo suo: non prese una sterlina di ingaggio, per carità, ma poi disse che a Parigi la presenza di allenatori professionisti nei recinti olimpici avrebbe aiutato le gare e gli atleti, dichiarazione che provocò il più classico dei «come si permette» dai suoi dirigenti che pontificavano nei circoli più esclusivi di Londra fra sigari e whisky.

A Momenti di gloria seguì qualche anno fa Sulle ali delle aquile. Da Ian Charleson a Joseph Fiennes. Dal Liddell olimpico a quello cinese. Fatto di amicizie profonde, violenze subite e gare improvvisate persino quando il cancro si stava portando via “zio Eric”. E la sua Olimpiade vissuta di corsa per tutta la vita.

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